Salviamo l’Iveco!
Tra gli amici (molti) convenuti a festeggiare l’invidiabile traguardo del novantesimo compleanno di Carmelo Di Blasi, stimato rappresentante sindacale di base Fim-Cisl nell’azienda di via Volturno 62 e coraggioso protagonista di tante battaglie sindacali, civili e politiche, è affiorato un inaspettato e diffuso senso di mestizia. L’origine dell’amarezza è legata al precario stato di salute di quello che considerano orgogliosamente ancora il loro stabilimento. La festosa circostanza non ha impedito ai partecipanti di passare in rassegna i momenti e gli eventi più significativi vissuti dentro una storia industriale e di uomini iniziata nel lontano 1928 come «OM Fabbrica italiana di automobili». La riflessione ha certamente riguardato il passato senza però tralasciare il presente e le prospettive che, purtroppo, non appaiono rassicuranti. L’azienda cittadina sfortunatamente sembra avere un futuro incerto ed insidioso. Basta disporsi sulle portinerie negli orari d’ingresso ed uscita per accorgersi (ad occhio nudo) che il flusso dei lavoratori non è più appariscente come un tempo. Alcuni dati evidenziano chiaramente un lento ed inesorabile declino che viene da lontano. Se nel 1975, anno di nascita della multinazionale Iveco, gli occupati erano 6400 (massimo storico), 25 anni più tardi (nel 2000) erano scesi a 3600 (circa -44%). Un dimagrimento sicuramente vistoso causato da cicliche crisi settoriali, ristrutturazioni e riassetti produttivi non sempre all’altezza, modelli organizzativi innovativi in certi casi poco illuminati, processi di terziarizzazione scarsamente meditati e dall’incalzante utilizzo delle nuove tecnologie (robot e non solo). Parallelamente al drastico calo quantitativo degli addetti va aggiunto un frustante impoverimento professionale delle maestranze. Non è tutto. Nel 1999 si è pure consumato uno scippo - esproprio identitario provocato dal trasferimento a Suzzara della produzione dell’ultimo modello del carro leggero (Daily) discendente diretto del mitico Leoncino. La scelta quantomeno improvvida ha azzerato una specializzazione tipicamente bresciana dimostrata e riconosciuta a tal punto da convincere la FIAT ad assorbire il glorioso marchio OM nella galassia del gruppo torinese nel 1969. Quell’incauta penalizzazione ha mutato il destino dell’ultima grande realtà produttiva provinciale. Dal 2008 si sono persi 11.000 veicoli all’anno (da 25.000 a 14.000) e circa 1000 posti di lavoro. Dopo il trasferimento di 400 lavoratori nello stabilimento mantovano ed aver attinto a piene mani a tutti gli ammortizzatori sociali disponibili, gli occupati sono scesi a 1800 (1600 operai e 200 impiegati). Mentre l’IVECO cambia pelle e cuore, la città assiste distratta ed un muro invisibile tiene separata Brescia dalla sua fabbricasimbolo. Un appello, recuperare il terreno perduto si può: quello che serve è un approccio nuovo, diverso ed un atteggiamento più incisivo della politica, delle istituzioni, del sindacato e del mondo imprenditoriale. Sarà inoltre vitale e decisivo coinvolgere ed impegnare l’Università cittadina nello studio e sperimentazione delle energie alternative destinate ai veicoli industriali da produrre. Solo in questo caso Brescia potrà essere rilanciata, cioè messa nelle condizioni di rinverdire i fasti delle vittorie alla Mille Miglia con le autovetture Om e di recuperare il prestigio raggiunto ai bei tempi del mai dimenticato camion Leoncino. L’obiettivo è certamente ambizioso, ma lo sforzo sinergico degli attori citati può essere di prezioso aiuto a scrivere una pagina di speranza per la comunità del lavoro bresciana.