Ospedali, la terapia delle parole che sa «legare» medico e paziente
Sabato in Poliambulanza l’incontro dedicato al tema della «Cura della relazione»
Ormai sappiamo che nessun luogo più dell’ospedale, e della malattia che esso accoglie, soffre del protagonismo del singolo, della sua lontananza, della mancanza di legami che siano saldi, robusti e generosi. Legami tra chi ha il potere di erogare una cura e chi, debole, la invoca.
Ovunque, oggi, le relazioni sono fragili, e ciò induce al pensiero che la fragilità della persona malata renda ancor più difficile il rapporto con l’altro. Un altro che si vuole sia disponibile, capace e buono. E non sempre è così, il mondo della malattia è spesso vittima di ciò che i linguisti chiamano «comunicazione diseguale», una comunicazione tra persone di potere diverso, che usano — o invocano — linguaggi differenti, molto tecnici e poco umani, linguaggi che allontanano anziché avvicinare, sentenze anziché dialoghi.
Che si stia attenuando il senso di solidarietà è manifesto, e la sacrosanta idea della persona come entità fatta di relazioni spesso è contraddetta da quanto avviene in una stanza d’ospedale, in un Pronto Soccorso, in un ambulatorio medico. Questi sono i luoghi dove la persona rischia di perdere la propria identità, e lo fa nel momento in cui viene rivestita soltanto da quella della malattia. Non succede forse di sentir dire dell’infarto del letto 3 o della mammella da operare?
In Poliambulanza si parlerà di questo, e a farlo saranno Ottavio Di Stefano, presidente dell’Ordine dei medici, Sonia Tosoni, coordinatrice infermieristica del Dipartimento Cardiovascolare della Poliambulanza, Gian Luca Favetto, scrittore e poeta torinese. Dialogheranno tra loro, lo faranno col pubblico, e magari con qualche paziente curioso che si siederà in sala. La mattinata sarà coerente col luogo, un ospedale, e le parole che si ascolteranno saranno terapia: in un mondo che spezza i legami non serve il traumatologo (lui si occupa dei legamenti), di fronte a persone che chiedono soccorso col cuore in mano, non serve il cardiologo (è una metafora, dottore!), in una persona sopraffatta dalla malattia, si vuole solo che la parola sia dolce, e serve vederci chiaro. L’oculista se ne stia tranquillo, basterà uno sguardo, perché come recita una poesia di Favetto… «Lo sguardo a volte è un corpo/ concima paure e meraviglie all’avvenire, /ha schiena dritta». (Mappamondi e corsari. Interlinea edizioni).
Scompaiano quindi i linguaggi diseguali, che andranno forse bene in caserma e che ancora, purtroppo, si ascoltano nei tribunali o dalla voce di politici prepotenti, ma che dovrebbero abbandonare, una volta per tutte, gli ospedali. La tanto invocata solidarietà parli una lingua semplice, una lingua buona, lo faccia tra le mura dell’ospedale così come ovunque si scorga, nel volto della persona, il segno della sofferenza.
È o non è vero che in ospedale ci si deve fare in quattro? E allora, come potrà trovare spazio l’individualismo, che nasce da individuo (in- «non» dividuus, da divido, «dividere», quindi «indivisibile»)?
«L’individuo lasciato a se stesso — scrive don Giacomo Canobbio, coordinatore del ciclo di incontri —appare sempre più indifeso e tende, da una parte, a erigere barriere difensive sempre meno porose, dall’altra, a chiedere protezione alle istituzioni politiche sollecitate a salvaguardare non il bene comune, bensì quello degli individui, che si associano prevalentemente per far valere i propri interessi».
E in ospedale, come Di Stefano, Tosoni e Favetto non mancheranno di ricordare, l’interesse è comune, del paziente che chiede aiuto, e del medico o dell’infermiere che donandolo, arricchiranno soprattutto se stessi.