Brescia, Musil e le due culture
Tre idee per il Musil, Museo dell’Industria e del Lavoro la cui progettazione ha imboccato finalmente la fase della realizzazione. A prescindere dal fatto, ormai scontato per tutti i musei che si rispettino, che non dovrà essere solo una sede di «archeologia» industriale ma pure un momento di «pedagogia» dell’industria il futuro Musil, con tutto il rispetto per l’attuale sede di Rodengo Saiano, non dovrà essere un «magazzino», per quanto ben ordinato e organizzato con gli scaffali in bell’ordine geometrico dove sono raccolte utensileria e componentistica industriali ma una esposizione di macchine e impianti tecnologicamente significativi e realmente interessanti, a partire dagli albori della manifattura (l’archeologia) per arrivare ad esemplari più attuali e sofisticati (la pedagogia). A tale scopo gli enti e le fondazioni che hanno dato vita al museo (Aib in primis) dovrebbero invitare le imprese locali, sia iscritte che non, a scandagliare i loro magazzini in molti casi tuttora forniti – basti pensare al ricchissimo patrimonio dell’Archivio Negri dotato di 400mila lastre, il più importante d’Italia nella storia dell’industria – di testimonianze antiche e reperti d’epoca, con particolare attenzione all’evoluzione di macchinari e sistemi più che utensili o prodotti. In secondo luogo va ricordato che il Musil può fare di Brescia una sorta di «capitale delle due culture», umanistica e tecnica. Cultura umanistica con Santa Giulia, museo ormai legittimato nonché simbolo «consacrato» dallo status di sito Unesco ossia patrimonio dell’umanità; cultura tecnica con il Musil che, date le premesse ben illustrate dal suo neopresidente Paride Saleri, può aspirare a emblema della tradizione industriale bresciana, parte determinante di quella italiana, in ragione della ricchezza e completezza delle sue testimonianze. Dunque più che capitale della cultura italiana 2022, aspirazione legittima ancorché ambiziosa, Brescia con Santa Giulia e Musil può realisticamente aspirare a «capitale delle due culture», non per il solo 2022 ma per l’avvenire. Infine, terzo elemento, la «cifra» o meglio il tipo di «lettura» che si vuol conferire al Musil per distinguerlo da analoghi precedenti o similari esperienze di cui è già ricca l’Italia industrializzata. Perché non fare del Musil non solo una esposizione permanente di storia del lavoro ma, proprio in quanto tale, di «storia della fatica»? La storia di uomini che hanno faticato per realizzare macchine che ci liberassero dalla fatica? Uomini che hanno fatto fatica mentale per costruire macchine che ci liberassero dalla fatica fisica? Se è vero che le prime tre storiche rivoluzioni industriali ci hanno liberato dalla fatica, tali che ad ogni passaggio l’occupazione è aumentata, e che l’ultima in atto, quella della digitalizzazionerobotizzazione, ci sta liberando dal lavoro, tale che pur creando nuovi posti ne elimina di più di quanti ne crei, è altrettanto vero che guardare alla storia del lavoro come storia della fatica può dare al museo che la ospita una ulteriore chiave di lettura non solo per il passato ma pure per il presente. In ordine non solo alla archeologia ma più ancora alla pedagogia industriale, ovvero alla sua didattica interattiva. Affinché dalla conoscenza della liberazione dalla fatica della passate rivoluzioni possiamo approdare alla coscienza della liberazione dal lavoro dell’ultima rivoluzione, quella digitale, anticipazione di quella «intelligenza artificiale» che, oltre alla fatica di fare, ci libererà forse dalla fatica di pensare.