I TONNI DI COLLODI FRA NOI
Carlo Collodi con più di un secolo d’anticipo ha messo alla berlina persino Internet e la «forma mentis» che esso va plasmando. Leggere per credere. Nelle avventure di Pinocchio c’è un allarme sulla funzione livellatrice, fintamente democratica, falsamente egualitaria oggi rivestita dai social. Potenza di un libro geniale, di un «capolavoro involontario» che giunge dal passato e continua a descrivere il nostro oggi, di noi italiani irrimediabili, Pinocchi incorreggibili, burattini recidivi. Bisognava essere qualche sera fa a Salò, nell’affollatissima biblioteca, ad ascoltare il giornalista e critico Piero Dorfles distillare una vita di letture collodiane (riassunte nel libro Le palline di zucchero della fata Turchina. Indagine su Pinocchio, Garzanti) per capire la ricchezza del libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Questa fiaba apparente s’è rivelata la sorgente di un mito di cui l’industria culturale s’è appropriata. La critica non è stata da meno e, anche se il compianto Harold Bloom non ha ricompreso Pinocchio nel suo Canone occidentale, i migliori studiosi non hanno smesso di arrovellarsi su questi 36 capitoli: da Jemolo a Barberi Squarotti, da Spinazzola a Ferrero, per non parlare di psicanalisti come Jervis, politici come Spadolini, o scrittori come Calvino e Citati, Cerami e Fruttero, Pontiggia e Manganelli. Destino dei capolavori è quello di sopravanzare misteriosamente il proprio autore. Alle Avventure di Pinocchio è accaduto proprio questo.
Carlo Lorenzini, alias Carlo Collodi, non era che un giornalista inacidito, un polemista dalla penna spuntata, uno scapolo impenitente e un perditempo conclamato quando nel 1881 inventa il burattino più celebre della letteratura. Come un prisma in cui entra un fascio di luce (il racconto) e ne esce un ventaglio di colori (i significati), la macchina narrativa di Pinocchio è stracarica di riflessi. Dentro ci si può leggere l’ascesi da un’infanzia irresponsabile a una maturità doveristica, lo specchio di un popolo bambino ribelle al giovane stato unitario e alle sue deludenti prove, la denuncia delle ingiustizie palesi e delle prepotenze istituzionali, la difesa delle virtù della campagna contro l’urbanizzazione delle plebi, una lingua mediana comprensibile da Venezia a Palermo che ha certificato l’esistenza di un Paese chiamato Italia. Si potrebbe continuare nelle letture — tutte più o meno autorizzate — per approdare all’uso del libro di Collodi come matrice del linguaggio politico di ieri e di oggi. Accusare un avversario di essere un Pinocchio, con la mano a bicchiere che mima la crescita del naso, è prassi nelle aule parlamentari. Ogni repubblica (la Prima, la Seconda e la Terza) ha i suoi Grilli parlanti, autori di prediche inascoltate. Il Gatto e la Volpe rimangono il prototipo di alleati discordi solidali però nel malaffare. Ma c’è una quarta figura che merita d’essere riscoperta per la sua attualità: quella del Tonno. Il Tonno che Pinocchio, in procinto di maturare, trova nel ventre del chilometrico pesce-cane prima di imbattersi in un incanutito Geppetto. Il Tonno specchio di rassegnazione travestita da dignità, di fatalismo camuffato da saggezza. Mentre Pinocchio s’ostina a cercare una via di fuga il Tonno lo disillude: «Neppure io vorrei esser digerito – soggiunge – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!...». Ma non basta. A Pinocchio che bolla queste parole come «scioccherie», il Tonno ribatte: «La mia è un’opinione e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!». I Tonni politici, che guidino un partito o un social, un pacchetto di voti o una piattaforma, sono in azione oggi più che ai tempi di Collodi. Proclamano che un’opinione vale l’altra, diffondono il relativismo e la volatilità assertoria, sono campioni dell’opinionismo trasversale e dell’opinabilità universale. Pinocchio si salva nonostante l’opinione del Tonno che, anzi, ne seguirà la via di fuga. Perché Pinocchio è, diversamente dalla Storia, un libro a lieto fine. Anche per questo, forse, continuiamo a considerarlo una fiaba e non il nostro impietoso specchio.