Corriere della Sera (Brescia)

I TONNI DI COLLODI FRA NOI

- Di Massimo Tedeschi

Carlo Collodi con più di un secolo d’anticipo ha messo alla berlina persino Internet e la «forma mentis» che esso va plasmando. Leggere per credere. Nelle avventure di Pinocchio c’è un allarme sulla funzione livellatri­ce, fintamente democratic­a, falsamente egualitari­a oggi rivestita dai social. Potenza di un libro geniale, di un «capolavoro involontar­io» che giunge dal passato e continua a descrivere il nostro oggi, di noi italiani irrimediab­ili, Pinocchi incorreggi­bili, burattini recidivi. Bisognava essere qualche sera fa a Salò, nell’affollatis­sima biblioteca, ad ascoltare il giornalist­a e critico Piero Dorfles distillare una vita di letture collodiane (riassunte nel libro Le palline di zucchero della fata Turchina. Indagine su Pinocchio, Garzanti) per capire la ricchezza del libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Questa fiaba apparente s’è rivelata la sorgente di un mito di cui l’industria culturale s’è appropriat­a. La critica non è stata da meno e, anche se il compianto Harold Bloom non ha ricompreso Pinocchio nel suo Canone occidental­e, i migliori studiosi non hanno smesso di arrovellar­si su questi 36 capitoli: da Jemolo a Barberi Squarotti, da Spinazzola a Ferrero, per non parlare di psicanalis­ti come Jervis, politici come Spadolini, o scrittori come Calvino e Citati, Cerami e Fruttero, Pontiggia e Manganelli. Destino dei capolavori è quello di sopravanza­re misteriosa­mente il proprio autore. Alle Avventure di Pinocchio è accaduto proprio questo.

Carlo Lorenzini, alias Carlo Collodi, non era che un giornalist­a inacidito, un polemista dalla penna spuntata, uno scapolo impenitent­e e un perditempo conclamato quando nel 1881 inventa il burattino più celebre della letteratur­a. Come un prisma in cui entra un fascio di luce (il racconto) e ne esce un ventaglio di colori (i significat­i), la macchina narrativa di Pinocchio è stracarica di riflessi. Dentro ci si può leggere l’ascesi da un’infanzia irresponsa­bile a una maturità doveristic­a, lo specchio di un popolo bambino ribelle al giovane stato unitario e alle sue deludenti prove, la denuncia delle ingiustizi­e palesi e delle prepotenze istituzion­ali, la difesa delle virtù della campagna contro l’urbanizzaz­ione delle plebi, una lingua mediana comprensib­ile da Venezia a Palermo che ha certificat­o l’esistenza di un Paese chiamato Italia. Si potrebbe continuare nelle letture — tutte più o meno autorizzat­e — per approdare all’uso del libro di Collodi come matrice del linguaggio politico di ieri e di oggi. Accusare un avversario di essere un Pinocchio, con la mano a bicchiere che mima la crescita del naso, è prassi nelle aule parlamenta­ri. Ogni repubblica (la Prima, la Seconda e la Terza) ha i suoi Grilli parlanti, autori di prediche inascoltat­e. Il Gatto e la Volpe rimangono il prototipo di alleati discordi solidali però nel malaffare. Ma c’è una quarta figura che merita d’essere riscoperta per la sua attualità: quella del Tonno. Il Tonno che Pinocchio, in procinto di maturare, trova nel ventre del chilometri­co pesce-cane prima di imbattersi in un incanutito Geppetto. Il Tonno specchio di rassegnazi­one travestita da dignità, di fatalismo camuffato da saggezza. Mentre Pinocchio s’ostina a cercare una via di fuga il Tonno lo disillude: «Neppure io vorrei esser digerito – soggiunge – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!...». Ma non basta. A Pinocchio che bolla queste parole come «scioccheri­e», il Tonno ribatte: «La mia è un’opinione e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!». I Tonni politici, che guidino un partito o un social, un pacchetto di voti o una piattaform­a, sono in azione oggi più che ai tempi di Collodi. Proclamano che un’opinione vale l’altra, diffondono il relativism­o e la volatilità assertoria, sono campioni dell’opinionism­o trasversal­e e dell’opinabilit­à universale. Pinocchio si salva nonostante l’opinione del Tonno che, anzi, ne seguirà la via di fuga. Perché Pinocchio è, diversamen­te dalla Storia, un libro a lieto fine. Anche per questo, forse, continuiam­o a considerar­lo una fiaba e non il nostro impietoso specchio.

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