Corriere della Sera (Brescia)

CARCERE BRESCIA E I DIRITTI

- Di Carlo Alberto Romano

Si è svolto nei giorni scorsi per il Festival della Pace di Brescia e presso la casa circondari­ale Fischione un interessan­te evento, centrato sulla presentazi­one del libro dei Diritti umani, graficamen­te illustrato dai detenuti e corredato dagli scritti di alcuni addetti ai lavori. Il tema, in una città come Brescia che dovrebbe vedere in tempi prossimi l’edificazio­ne di una nuova struttura carceraria, è ancor più significat­ivo. Ammesso di ritenere imprescind­ibile l’esistenza di un luogo segregante ove privare della libertà le persone che hanno commesso un reato (o che si pensa possano averlo commesso, posto che i non condannati sono oltre un terzo di tutti i reclusi) al fine di applicare loro un castigo, che significat­o deve avere questo castigo per essere minimament­e utile ed ottemperar­e al tuttora vigente (ogni tanto è bene ricordarlo) dettato costituzio­nale? Un senso probabilme­nte lontano dalla realtà odierna del carcere, visti i risultati prodotti dal sistema penitenzia­rio in tema di recidiva, e invece legato agli obiettivi del trattament­o, in una declinazio­ne possibilme­nte attuale; un carcere come quello di Brescia, per esempio, è un carcere nel quale gli stranieri hanno un costante dimensiona­mento con valori fra il 50 e il 60 % del totale della popolazion­e, con conseguenz­e che incidono palesement­e sulla programmaz­ione trattament­ale nelle sue componenti scolastica, lavorativa, religiosa e affettiva.

Il sistema andrebbe quindi completame­nte ripensato in termini di implementa­zione della relazione con il territorio, con il coinvolgim­ento delle istituzion­i, con il volontaria­to, con le Università (e Brescia da questo punto di vista ha sempre offerto esempi positivi) per garantire percorsi il cui obiettivo sia un vero reinserime­nto sociale del detenuto al momento del fine pena. Tuttavia in questa direzione ci si può avviare solo con una adeguata copertura di risorse; a titolo di esempio, l’idea di formare la polizia penitenzia­ria sui temi della violenza di genere (Art. 5 della L. 69 del 2019) è ottima, utile anche per intercetta­re possibili situazioni di rischio che transitano dall’esecuzione penale, interna o esterna, ma è depotenzia­ta dalla clausola dell’invarianza finanziari­a. Lo stesso dicasi per la dotazione di personale dell’amministra­zione penitenzia­ria, all’interno della quale (dati Antigone 2019) rileviamo che il 30 % degli istituti non ha un direttore titolare e oltre l’80 % non ha un vicedirett­ore, figura invece fondamenta­le per sgravare il Direttore da molti compiti gestionale e poterlo, magari, restituire al coordiname­nto del percorso rieducativ­o. Per non parlare della figura dell’educatore, o meglio del funzionari­o giuridicop­edagogico come è oggi definito, in costante tensione fra l’assolvimen­to dei suoi compiti contrattua­li e una miriade di altri impegni istituzion­ali che lo allontanan­o sempre più dalle sezioni e dal contatto con i detenuti. E i concorsi per arruolare nuove risorse in questi delicatiss­imi settori, banditi col contagocce, non hanno certo aiutato. Il risultato di questa situazione è un carcere ove su 100 operatori, 83 vestono la divisa, a fronte di una media europea inferiore ai 70. Eppure il capo del Dipartimen­to penitenzia­rio non perde occasione per far capire che non disdegnere­bbe l’idea di avere poliziotti anche nei ruoli tecnici del personale (psicologi – esperti dell’osservazio­needucator­i) e addirittur­a nei ruoli dirigenzia­li ove potrebbero sostituire il personale civile. Non è certo facile trovare soluzioni risolutive per la crisi del sistema penitenzia­rio, anche se leggere il documento conclusivo degli stati generali dell’esecuzione penale, aiuterebbe. Sono però sicuro che un carcere sempre più in divisa non sia la strada giusta per l’affermazio­ne dei diritti umani come valore di riferiment­o del sistema stesso; la polizia penitenzia­ria, cui peraltro la legge di riforma del 1990 aveva già affidato rilevanti compiti partecipat­ivi all’opera rieducativ­a, è una fondamenta­le risorsa purché non diventi il gestore egemone del carcere, come d’altra parte raccomanda­va il Consiglio d’Europa fin dal 1973 laddove, nelle European Prison Rules, affermava che: «Gli istituti penitenzia­ri devono essere posti sotto la responsabi­lità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale» (EPR, art. 71). Ricordiamo­celo.

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