CARCERE BRESCIA E I DIRITTI
Si è svolto nei giorni scorsi per il Festival della Pace di Brescia e presso la casa circondariale Fischione un interessante evento, centrato sulla presentazione del libro dei Diritti umani, graficamente illustrato dai detenuti e corredato dagli scritti di alcuni addetti ai lavori. Il tema, in una città come Brescia che dovrebbe vedere in tempi prossimi l’edificazione di una nuova struttura carceraria, è ancor più significativo. Ammesso di ritenere imprescindibile l’esistenza di un luogo segregante ove privare della libertà le persone che hanno commesso un reato (o che si pensa possano averlo commesso, posto che i non condannati sono oltre un terzo di tutti i reclusi) al fine di applicare loro un castigo, che significato deve avere questo castigo per essere minimamente utile ed ottemperare al tuttora vigente (ogni tanto è bene ricordarlo) dettato costituzionale? Un senso probabilmente lontano dalla realtà odierna del carcere, visti i risultati prodotti dal sistema penitenziario in tema di recidiva, e invece legato agli obiettivi del trattamento, in una declinazione possibilmente attuale; un carcere come quello di Brescia, per esempio, è un carcere nel quale gli stranieri hanno un costante dimensionamento con valori fra il 50 e il 60 % del totale della popolazione, con conseguenze che incidono palesemente sulla programmazione trattamentale nelle sue componenti scolastica, lavorativa, religiosa e affettiva.
Il sistema andrebbe quindi completamente ripensato in termini di implementazione della relazione con il territorio, con il coinvolgimento delle istituzioni, con il volontariato, con le Università (e Brescia da questo punto di vista ha sempre offerto esempi positivi) per garantire percorsi il cui obiettivo sia un vero reinserimento sociale del detenuto al momento del fine pena. Tuttavia in questa direzione ci si può avviare solo con una adeguata copertura di risorse; a titolo di esempio, l’idea di formare la polizia penitenziaria sui temi della violenza di genere (Art. 5 della L. 69 del 2019) è ottima, utile anche per intercettare possibili situazioni di rischio che transitano dall’esecuzione penale, interna o esterna, ma è depotenziata dalla clausola dell’invarianza finanziaria. Lo stesso dicasi per la dotazione di personale dell’amministrazione penitenziaria, all’interno della quale (dati Antigone 2019) rileviamo che il 30 % degli istituti non ha un direttore titolare e oltre l’80 % non ha un vicedirettore, figura invece fondamentale per sgravare il Direttore da molti compiti gestionale e poterlo, magari, restituire al coordinamento del percorso rieducativo. Per non parlare della figura dell’educatore, o meglio del funzionario giuridicopedagogico come è oggi definito, in costante tensione fra l’assolvimento dei suoi compiti contrattuali e una miriade di altri impegni istituzionali che lo allontanano sempre più dalle sezioni e dal contatto con i detenuti. E i concorsi per arruolare nuove risorse in questi delicatissimi settori, banditi col contagocce, non hanno certo aiutato. Il risultato di questa situazione è un carcere ove su 100 operatori, 83 vestono la divisa, a fronte di una media europea inferiore ai 70. Eppure il capo del Dipartimento penitenziario non perde occasione per far capire che non disdegnerebbe l’idea di avere poliziotti anche nei ruoli tecnici del personale (psicologi – esperti dell’osservazioneeducatori) e addirittura nei ruoli dirigenziali ove potrebbero sostituire il personale civile. Non è certo facile trovare soluzioni risolutive per la crisi del sistema penitenziario, anche se leggere il documento conclusivo degli stati generali dell’esecuzione penale, aiuterebbe. Sono però sicuro che un carcere sempre più in divisa non sia la strada giusta per l’affermazione dei diritti umani come valore di riferimento del sistema stesso; la polizia penitenziaria, cui peraltro la legge di riforma del 1990 aveva già affidato rilevanti compiti partecipativi all’opera rieducativa, è una fondamentale risorsa purché non diventi il gestore egemone del carcere, come d’altra parte raccomandava il Consiglio d’Europa fin dal 1973 laddove, nelle European Prison Rules, affermava che: «Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale» (EPR, art. 71). Ricordiamocelo.