CULTURA IL MODELLO TORINESE
Molta storia e molte affinità legano Brescia a Torino: stessa vocazione motoristica, un’autostrada completata nel 1973, una certa qual sobrietà dei costumi pubblici, una prolungata guida politica da parte del centrosinistra, una vicenda da industrial town (nel caso di Torino con una vera e propria Fiatdipendenza) ora immersa nella transizione verso la città multiservizi. L’affinità fra le due città dovrebbe incoraggiare, nella realtà più piccola, qualche sano spirito di emulazione. Anzi, una vera e propria disponibilità a copiare modelli fruttuosi, ove se ne vedano. E una lezione Torino la impartisce indubbiamente su un terreno oggi nevralgico: il mecenatismo culturale. Da oltre trent’anni, esattamente dal 1987, a Torino opera e fa sentire i suoi benefici effetti una realtà dalla definizione quasi anonima ma dalla operatività straordinariamente concreta: si tratta della «Consulta di Torino» che riunisce 33 aziende locali che regolarmente versano all’ente un contributo annuale per restaurare e valorizzare i beni culturali della città. Fra i soci non esiste competizione per la primazia o il monopolio: ci sono quattro banche (Banca del Piemonte, Banca Passadore, Fideuram, Intesa Sanpaolo), due assicurazioni (Reale Mutua e Vittoria), associazioni d’impresa (l’Unione industriale di Torino), aziende che operano sul mercato del consumo finale (Martini, Ferrero, Lavazza, Fca) ma anche della fornitura meccanica (Skf, Megadyne).
Isingoli soci non sono alla ricerca spasmodica di visibilità (che ottengono individualmente con le più tradizionali strategie pubblicitarie e di marketing) ma attraverso la Consulta si preoccupano di elevare l’immagine del brandTorino in quanto tale: effetto di un nuovo modo di intendere la responsabilità sociale d’impresa, di esprimere attaccamento al proprio territorio, di migliorare il contesto in cui l’azienda opera e il suo personale vive. Gli effetti, nel corso degli anni, sono diventati macroscopici. Trenta (sì, 30) milioni di euro in trent’anni riversati su 90 progetti fra restauri di monumenti, piazze, spazi pubblici, edifici civili e religiosi. Nell’elenco delle opere finanziate recentemente spiccano l’allestimento di una sala della Pinacoteca Albertina, il restauro del Gabinetto del segreto maneggio degli affari di Stato a Palazzo reale, il restauro del cupolino della Cappella della Sindone, il restauro dell’appartamento del re nella Palazzina di caccia di Stupinigi. Se l’ha fatto Torino, perché non potrebbe farlo anche Brescia? Qui, fra l’altro, abbondano realtà imprenditoriali che non hanno l’ansia di un ritorno immediato d’immagine presso il clienteconsumatore, ma operano all’interno di filiere lunghe, nell’alveo della subfornitura. Aziende (ma anche Ordini professionali, società di servizi, realtà associative, Fondazioni) che potrebbero veicolare il proprio concorde mecenatismo verso disegni ambiziosi, di rilevanza urbana e provinciale. Progetti come la sistemazione della Crociera di San Luca e persino di parti del Castello, di antiche chiese e nuovi percorsi d’arte, susciterebbero meno sgomento se Brescia disponesse di una realtà simile, capace di immettere — con regolarità, nel tempo — risorse significative sui beni culturali. Il presidente dell’Aib Giuseppe Pasini e il presidente dei giovani di Aib Luca Borsoni in alcune circostanze hanno evocato uno strumento simile. Già. Se lo si è fatto a Torino, a noi così vicina e affine, perché non a Brescia?