Bisogno di Infinito
Il poeta oppone alla civiltà delle astrazioni il corpo individuo con il suo affanno e le sue ferite
Alungo professore di letterature comparate, saggista, poeta, traduttore, Antonio Prete preferisce oggi qualificarsi come scrittore. Scrittore che ha ricostruito la storia e indagato le forme di stati d’animo, modi di essere e di esprimersi come la compassione, la nostalgia, la lontananza: aspetti, momenti del Cielo nascosto — per citare il titolo di uno dei suoi saggi — in cui consiste la nostra interiorità, della quale è possibile rintracciare una grammatica.
Parole, temi, ricorrenze che emergono soprattutto in quella «lingua che qui e ora è in ascolto del respiro del vivente, delle cose in quanto viventi. E indugia in questo ascolto»: in questi termini si può definire la poesia. Quella di Giacomo Leopardi in particolare, riferimento costante nel percorso di Antonio Prete. I suoi saggi hanno segnato profondamente il modo di leggere il poeta di Recanati e sembrano trovare un approdo nel recente La poesia del vivente. Leopardi con noi (Bollati Boringhieri 2019), nel quale veniamo accompagnati a riconsiderare la «tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema, e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca».
Quell’interrogazione, quell’assillo che quindi non ci lasciano per tutto il corso dell’esistenza, e trovano — in modo diverso secondo le età della vita in cui torniamo a rileggerlo — rispondenza nel poeta che «oppone a una civiltà che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una cosmologia sconfinata» e insieme al «mondo snaturato della natura», snaturato dal momento che la sua bellezza e integrità sono state piegate «alle ragioni della tecnica. O alla frenesia del consumo», e compromesse dalla rimozione della fragilità del vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può «aiutare a conoscere ed abitare la natura», la poesia, che «come la ginestra è un fiore tra le rovine», capace tuttavia ancora di portare un sorriso nella vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel piacere della citazione, e questo accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda la voce del poeta e insieme vi aderisce, ma anche perché la critica di Prete è — potremmo dire parafrasando la sua definizione della poesia di Leopardi — una critica poetante. Una critica, cioè, che «non può essere altro che il racconto della propria esperienza di lettura», della quale «si annotano momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire», con «un’implicazione di sé nell’ascolto» tale che «il movimento dalla lettura verso la scrittura appare necessario». Una scrittura, comunque, che sempre «dal testo muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro», mettendo a fuoco le costanti fondamentali della poesia di Leopardi: l’«assidua dislocazione del punto di osservazione», innanzitutto, «dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa», i cui luoghi sono gli antichi, i fanciulli, gli animali, detentori tutti di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita che rappresenta il punto di vista necessario a una critica della modernità sostanziale e pure capace di riconoscere che «La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo».
Una dimensione entro la quale nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale, «dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione dell’oblio», ma anche «amara perché l’immagine che porta con sé è una parvenza», la cui «essenza è l’impalpabile effimero sparire». Sicché il «tempo della poesia» è «un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è irreversibile, ha bruciato» e la poesia si definisce «come ospitalità di quel che è perduto».
"Dislocazione Il punto di vista passa dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico