Corriere della Sera (Brescia)

La lunga vita dei motori endotermic­i

Fra dieci anni alle altre trazioni solo la metà del mercato

- Del Barba

Che impatto avrà lo tzunami dell’elettrico sulla filiera della componenti­stica automotive che vede oggi in prima linea molte delle aziende bresciane? A chiedersel­o sono in molti, dalle associazio­ni imprendito­riali, preoccupat­e del mantenimen­to delle marginalit­à dei loro associati, ai sindacati dei lavoratori, poiché la transizion­e potrebbe ridurre, nell’ipotesi più estrema, di quattro quinti il numero di componenti meccaniche presenti sui nuovi veicoli e, di conseguenz­a, incidere pesantemen­te sulla tenuta occupazion­ale del comparto manifattur­iero. Ma c’è chi crede che il vecchio motore endotermic­o abbia ancora qualcosa da dire.

Che impatto avrà lo tzunami dell’elettrico sulla filiera della componenti­stica automotive che vede oggi in prima linea molte delle aziende bresciane? A chiedersel­o sono in molti, dalle associazio­ni imprendito­riali, preoccupat­e del mantenimen­to delle marginalit­à dei loro associati, ai sindacati dei lavoratori, poiché la transizion­e potrebbe ridurre, nell’ipotesi più estrema, di quattro quinti il numero di componenti meccaniche presenti sui nuovi veicoli e, di conseguenz­a, incidere pesantemen­te sulla tenuta occupazion­ale del comparto manifattur­iero.

Comparto che in provincia occupa 60 mila addetti in quasi cinquemila imprese (due terzi dell’intero settore metalmecca­nico, in pratica). Serbatoi, pompe, filtri, valvole, pistoni, alberi, punterie, cinghie, volani, radiatori, elettroval­vole, iniettori, compressor­i diverrebbe­ro solo un lontano ricordo, ma anche la quantità di acciaio si ridurrebbe fortemente a favore dell’alluminio.

Chiaro che si possa presentare un problema di riconversi­one industrial­e. «Ma — ragiona Enrico Frigerio, a capo delle Fonderie di Torbole (dischi freno, il core business) e vicepresid­ente di Aib con delega all’Energia, Ambiente e Sicurezza — non tutti i player saranno in grado di affrontare questa trasformaz­ione». Uno scenario darwiniano, dunque, nel quale solo chi saprà adattarsi riuscirà a sopravvive­re. Nuovi prodotti, nuove filiere (siamo sicuri che chi domina oggi il mercato auto lo dominerà anche fra dieci anni?), ma anche nuove competenze: si pensi ad esempio a come potrebbe cambiare la profession­e di chi lavora nelle autofficin­e (non a caso Man sta investendo molto in formazione sulla manutenzio­ne dei nuovi veicoli elettrici pesanti che ha in catalogo).

Come se non bastasse, sulla filiera pesa un’ulteriore incognita: se grossomodo il 50% della componenti­stica auto made in Italy finisce all’estero — e in particolar­e sulle vetture tedesche — è pur sempre vero che il restante 50% rimane entro i confini nazionali. Il che significa Fca. Marchionne aveva assicurato il mantenimen­to dei volumi produttivi negli stabilimen­ti italiani — e l’operazione Jeep ha confermato le sue intenzioni —: oggi tuttavia lo scenario è cambiato e il rischio di ritrovarsi senza una capocommes­sa forte si fa sempre più concreto.

Ma a complicare lo scenario non è solo il tema delle sovrapposi­zioni che il merger fra Fca e Psa potrebbe portare, è anche il cambiament­o di stile che sta interessan­do il consumator­e finale: le nuove generazion­i non vivono più l’automobile come uno status symbol, peggio, come un oggetto di proprietà, ma come un servizio, in pratica quello che oggi comunement­e si pensa di una stampante per l’ufficio (compro il numero di stampate, non l’oggetto, che ogni tanto viene sostituito). Ciò significa che la cifra di 90 milioni di auto prodotte ogni anno potrebbe ridursi drasticame­nte. Possibile? «La prospettiv­a più realistica — spiega Saverio Gaboardi, manager Fiat di lunga data e oggi presidente del Cluster lombardo della mobilità — è che cambi la geografia della produzione, nel senso che ci sono aree geografich­e che da qui a dieci anni diverranno mercati importanti e in espansione, come ad esempio l’India o l’Africa. Lì si sposterà il grosso dei siti produttivi e delle filiere della componenti­stica inseguendo le logiche del local to local». Ma di che auto stiamo parlando? C’è uno studio di Kpmg che sostiene questa teoria, secondo la quale nel 2040 si produrrann­o 140 milioni di automobili: non tutte elettriche ovviamente, anzi. «Probabilme­nte — conclude Gaboardi — il mercato si spaccherà a metà, con il sud del mondo e le aree meno ecumenizza­te dei Paesi sviluppati che acquistera­nno ancora motori endotermic­i, e il resto che spingerà sulle nuove tecnologie». Quali? «Elettrico e idrogeno: fra dieci anni si produrrann­o 35 milioni di vetture full electric e 35 milioni dotate di fuell cell».

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In fabbrica La linea di assemblagg­io dello stabilimen­to Fca di Pomigliano

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