«Quel viaggio nell’orrore»
Venerdì l’Università degli Studi di Brescia ha proposto una visita guidata ai due principali campi di concentramento in Italia.
Venerdì 31 gennaio, nell’ambito delle iniziative per la Giornata della Memoria, l’Università degli Studi di Brescia ha proposto una visita guidata ai due principali campi di concentramento che furono utilizzati dai nazi-fascisti in Italia: l’ex risiera di San Sabba a Trieste (nella foto) e il campo di Fossoli, in Emilia.
Vedere questi due luoghi dove furono internate e perseguitate e — nel caso di Trieste — uccise migliaia di persone è stata un’esperienza molto importante per la comunità universitaria. Studenti, personale tecnico-amministrativo e docenti hanno per la prima volta organizzato un viaggio della memoria, sulla scorta delle tante iniziative che le scuole da anni promuovono in quest’occasione. I luoghi sono meno noti dei più tristemente famosi campi d’oltralpe, ma la consapevolezza delle responsabilità per noi italiani, più diretta.
Siamo andati a vedere l’orrore che si è consumato anche in Italia, vicino a noi, non distante da abitazioni civili o campi coltivati.
La pedagogia dei gesti è più importante delle parole, per questo ci siamo mossi per andare di persona, per vedere, sentire, lasciarsi toccare, fermarsi ad ascoltare quello che le testimonianze e i luoghi hanno oggi (e avranno sempre) da dire.
Sono certo che ciò che ha mosso tutti noi è stata la volontà di non essere indifferenti e, insieme, il timore di poterlo diventare. Non solo indifferenti verso fatti lontani nel tempo, pur vivi nella memoria, ma soprattutto verso quanto incredibilmente ancora oggi accade nel nostro Paese e in tante parti del mondo.
Tra le immagini più drammatiche che mi si sono impresse nella memoria delle tante che gli insegnanti ci hanno mostrato sull’Olocausto nella scuola primaria e secondaria, mi ha sempre colpito il tragico filmato girato nel lager di Buchenwald, per documentare un gruppo di civili tedeschi costretto a visitare il campo di concentramento, liberato dalle truppe Usa.
Sapevano? E se sapevano cosa avranno pensato? Non ne erano direttamente responsabili, ma avrebbero potuto accadere quei fatti senza lo sfondo culturale che li ha resi possibili e giustificati? Cosa avrebbero fatto quei civili se fossero stati chiamati a diventare direttamente aguzzini? Di fronte alla “scelta”, come è solita ripetere Liliana Segre, cosa fecero? Su cosa si basava la pietà che provavano alla vista diretta e che non avevano saputo immaginare e coltivare dentro di loro? Perché non fu chiaro il nesso tra le grida, le discriminazioni, le persecuzioni, le deportazioni e l’eliminazione fisica, esito naturale del clima di odio che lentamente fu pianificato e perpetrato dal regime politico, complice anche parte del mondo scientifico e dell’informazione?
Ci colpisce ciò che nel profondo mette in crisi le nostre certezze, quindi quelle domande mi sono sempre rimbalzate: e io? E noi? Cosa avrei fatto io? Cosa faremmo o cosa facciamo noi?
Il dilemma è drammatico, inutile nascondersi che forse ci manca spesso il coraggio della coerenza, dell’umanità, della solitudine ispirata dalla coscienza.
Allora è drammaticamente importante prevenire, non consentire che la realtà ci ponga in un vicolo cieco dove pochi sapranno resistere al sopruso, alla violenza, all’emarginazione. Adesso che da tanta storia sappiamo, evitiamo che i buoni siano messi nella condizione di incattivirsi, evitiamo di arrivare al punto della scelta estrema, lavorando perché non sia mai necessaria. Del resto, le medicine per la prevenzione sono le stesse, in dosi minori, di quelle che dovremo utilizzare in caso di acuirsi della malattia: l’educazione alla verità, all’accoglienza, alla solidarietà, alla libertà, alla bellezza.
Se potremo assaporare il gusto per questi valori, forse riusciremo a non rinunciarvi. Se temiamo di essere in astinenza, dobbiamo alzare le dosi di bene.
Noi che viviamo in comunità educanti di alta formazione dobbiamo però educare anche alla capacità di prefigurare il futuro, all’abitudine alla visione strategica, alla simulazione degli esiti (anche inattesi) delle azioni umane. In altre parole, dobbiamo educare alla vigilanza attiva: gli incendi si spengono rilevando il primo fumo, perché il fuoco può distruggere anche i nostri “sensori”!
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L’indifferenza
Ci ha mosso la volontà di non essere indifferenti e, insieme, il timore di poterlo diventare