Lo stradone racconta Roma nell’era del post-tutto
«L’osservazione ostinata e diretta mi dice ciò che accade vicino a me, mi narra ogni giorno la microstoria dello Stradone». Lo Stradone, via di maggiore percorrenza di uno dei quartieri occupati dalla «frantumaglia edilizia» che connota le prime fasce esterne al nucleo storico ridotto quasi per intero a «parco a tema per turisti». I turisti che percorrono la «Città di Dio» — come, sulla scorta di Pasolini, è denominata Roma ne «Lo stradone» di Francesco Pecoraro, così come nel romanzo precedente («La vita in tempo di Pace») — e non frequentano certo luoghi come la Valle Aurelia, o «Valle dell’Inferno», come c’è ancora chi la chiama a Roma. Luoghi segnati dall’insediamento delle fornaci da laterizi che, passate a metodi produttivi industriali nel secondo Ottocento, fornirono i mattoni necessari all’espansione post-unitaria dell’Urbe. Luoghi passati poi attraverso la «demolizione fisica e sociale» che ha sostituito il quartiere proletario dei fornaciai con le torri di quattordici piani dello IACP. È questo l’osservatorio da cui il protagonista conta di «poter vedere le cose della politica e dell’economia», abbandonando tuttavia la passività dello sguardo quando si fa narratore di un tempo nel quale c’era ancora il futuro e «le categorie del filosofico e del politico coincidevano», anche se la vita operaia era fatta di fatiche disumane. Dopo il luogo e la storia della sua gente, è la biografia dell’osservatore-storico che possiamo distinguere in questo racconto in cui tutto rimanda — ossessivamente, a tratti — a tutto. Il personaggio ha molto in comune con l’Ivo Brandani del romanzo precedente di Pecoraro, ma qui resta anonimo: se quello era un uomo ridotto a vivere in uno stato di «disperazione segreta e compressa», l’uomo dello Stradone, pur approdato a una analoga condizione di «disperazione a bassa intensità», si direbbe abbia guadagnato uno sguardo più disincantato, non meno sofferto ma in grado di guardare dall’alto una catastrofe ormai inequivocabilmente consumata in cui lo «stato di semiindifferenza costante» che l’invecchiare comporta non fa che aggravare un senso di inappartenenza contraddetto solo dal fare parte di un «ceto medio terminale», di «un Grande Ripieno, in cui tutti si mescolano con tutti. Non è il reddito ad aggregarli, ma una comunanza culturale (…) tutti insieme anestetizzati da una comune aspirazione alla sicurezza economica e fisica». «Cetomediocri», attirati solo dalla palestra e dal supermercato, che si muovono in un paesaggio umano desertificato, in cui non è certo un «un Partito che ormai appartiene a estranei» a fornire punti di riferimento. Vivere nel «post-tutto» significa del resto prendere atto che la realtà, vicina e lontana, in cui siamo calati è «sostanzialmente un mistero che resterà tale ancora per un bel po’, forse per sempre, nel senso che sarà compreso solo dalle macchine superpotenti che prima o poi costruiremo, o che più probabilmente si autocostruiranno». Non si tratta solo di Roma. «Lo stradone — ha osservato Guido Mazzoni — parla di ciò che Roma, oggi, permette di capire», ricorrendo a una lingua ibrida, infarcita dei modi del parlato e continuamente oscillante fra registri diversi, e praticando una scrittura che non aiuta a metter fra parentesi il presente, o a fuggirne; che non cerca di metter ordine nel disordine del mondo né di guadagnare, e indurre nel lettore, l’illusione di un superiore distacco critico dalla realtà, ma che, al contrario, si pone come mezzo di un’adesione priva di infingimenti e avara di distinguo al tempo in cui viviamo, di un riconoscimento lucido ma non ripiegato su se stesso della catastrofe che per essersi consumata non cessa di manifestarsi, ad ogni livello, senza risparmiare nessun luogo, nessun ambito di vita. Nessuno, dovunque e comunque viva.