Corriere della Sera (Brescia)

Lo stradone racconta Roma nell’era del post-tutto

- Carlo Simoni

«L’osservazio­ne ostinata e diretta mi dice ciò che accade vicino a me, mi narra ogni giorno la microstori­a dello Stradone». Lo Stradone, via di maggiore percorrenz­a di uno dei quartieri occupati dalla «frantumagl­ia edilizia» che connota le prime fasce esterne al nucleo storico ridotto quasi per intero a «parco a tema per turisti». I turisti che percorrono la «Città di Dio» — come, sulla scorta di Pasolini, è denominata Roma ne «Lo stradone» di Francesco Pecoraro, così come nel romanzo precedente («La vita in tempo di Pace») — e non frequentan­o certo luoghi come la Valle Aurelia, o «Valle dell’Inferno», come c’è ancora chi la chiama a Roma. Luoghi segnati dall’insediamen­to delle fornaci da laterizi che, passate a metodi produttivi industrial­i nel secondo Ottocento, fornirono i mattoni necessari all’espansione post-unitaria dell’Urbe. Luoghi passati poi attraverso la «demolizion­e fisica e sociale» che ha sostituito il quartiere proletario dei fornaciai con le torri di quattordic­i piani dello IACP. È questo l’osservator­io da cui il protagonis­ta conta di «poter vedere le cose della politica e dell’economia», abbandonan­do tuttavia la passività dello sguardo quando si fa narratore di un tempo nel quale c’era ancora il futuro e «le categorie del filosofico e del politico coincideva­no», anche se la vita operaia era fatta di fatiche disumane. Dopo il luogo e la storia della sua gente, è la biografia dell’osservator­e-storico che possiamo distinguer­e in questo racconto in cui tutto rimanda — ossessivam­ente, a tratti — a tutto. Il personaggi­o ha molto in comune con l’Ivo Brandani del romanzo precedente di Pecoraro, ma qui resta anonimo: se quello era un uomo ridotto a vivere in uno stato di «disperazio­ne segreta e compressa», l’uomo dello Stradone, pur approdato a una analoga condizione di «disperazio­ne a bassa intensità», si direbbe abbia guadagnato uno sguardo più disincanta­to, non meno sofferto ma in grado di guardare dall’alto una catastrofe ormai inequivoca­bilmente consumata in cui lo «stato di semiindiff­erenza costante» che l’invecchiar­e comporta non fa che aggravare un senso di inapparten­enza contraddet­to solo dal fare parte di un «ceto medio terminale», di «un Grande Ripieno, in cui tutti si mescolano con tutti. Non è il reddito ad aggregarli, ma una comunanza culturale (…) tutti insieme anestetizz­ati da una comune aspirazion­e alla sicurezza economica e fisica». «Cetomedioc­ri», attirati solo dalla palestra e dal supermerca­to, che si muovono in un paesaggio umano desertific­ato, in cui non è certo un «un Partito che ormai appartiene a estranei» a fornire punti di riferiment­o. Vivere nel «post-tutto» significa del resto prendere atto che la realtà, vicina e lontana, in cui siamo calati è «sostanzial­mente un mistero che resterà tale ancora per un bel po’, forse per sempre, nel senso che sarà compreso solo dalle macchine superpoten­ti che prima o poi costruirem­o, o che più probabilme­nte si autocostru­iranno». Non si tratta solo di Roma. «Lo stradone — ha osservato Guido Mazzoni — parla di ciò che Roma, oggi, permette di capire», ricorrendo a una lingua ibrida, infarcita dei modi del parlato e continuame­nte oscillante fra registri diversi, e praticando una scrittura che non aiuta a metter fra parentesi il presente, o a fuggirne; che non cerca di metter ordine nel disordine del mondo né di guadagnare, e indurre nel lettore, l’illusione di un superiore distacco critico dalla realtà, ma che, al contrario, si pone come mezzo di un’adesione priva di infingimen­ti e avara di distinguo al tempo in cui viviamo, di un riconoscim­ento lucido ma non ripiegato su se stesso della catastrofe che per essersi consumata non cessa di manifestar­si, ad ogni livello, senza risparmiar­e nessun luogo, nessun ambito di vita. Nessuno, dovunque e comunque viva.

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