Il lato umorista di d’Annunzio
I ricordi del segretario e i «pizzini» rivelano un genio delle battute di spirito
Il raffinato esteta, certo. Il virtuoso della poesia e il mago della prosa, ovvio. Il tribuno capace di infiammare gli animi, naturalmente. I clichè arcinoti si adattano perfettamente allo scrittore, al dandy, al guerriero e all’amante, e spiegano un bel pezzo del d’Annunzio pubblico.
Ma l’ospite del Vittoriale era anche una persona di spirito, un infaticabile creatore di calembour e di giochi di parole, un conversatore lepido, un ospite ironico, un grafomane ameno. Ed è stato, infine, l’icona prediletta di almeno due generazioni di vignettisti: quel «piccolo idolo d’ebano con la testa d’avorio» (definizione del suo arcinemico Marinetti) è stato stilizzato, deriso, riverito in tutte le salse fra Otto
e Novecento dai ritrattisti satirici di Italia e Francia.
Per convincersene basta leggere il divertente, illustratissimo, raffinato Gabriele d’Annunzio umorista che Costanzo Gatta, firma evergreen del giornalismo bresciano e del Corriere, manda in libreria per i tipi iper-dannunzisti del pescarese Ianieri Editore.
Che l’autore del Piacere fosse dotato di un’intelligenza arguta «e di una profonda e spesso indulgente simpatia umana» è ricordato in premessa da Franco Di Tizio. Consapevole delle proprie debolezze, il poeta ammetteva quelle altrui. Dotato di un ego smisurato, lo temperava con il ricorso a iperboli o all’emolliente
dell’autoironia. Lo conferma attraverso un’ampia messe di aneddoti il suo segretario Tom Antongini. Lo certificano i wats’app dell’epoca, i pizzini con cui il Vate regolava la vita del Vittoriale e che sono giunti fino a noi.
Niente barzellette, sia chiaro. Il sovrabbondante materiale dannunziano trabocca però di «calembour, pastiche, motti spiritosi, parodie, parole storpiate con intelligenza, accostamenti strani, invenzioni linguistiche» ricorda Gatta. Al collegio Cicognini frequentato da ragazzo le birbonate del giovane Gabriele evocano un Giamburrasca insofferente della «caserma gesuitica», un monello che arriva a far annunciare la propria
morte su una Gazzetta locale per vedere l’effetto che fa. Ai coetanei dedica poesie in francese e in abruzzese ugualmente pervase di spirito goliardico. Con il gusto del paradosso linguistico frequenta persino il veneziano e il bresciano per evocare gli incontri d’amore a questa o quella, lasciandosi a volte andare a onomatopee da fumetto («gnao bao, bao gnao» scrive a Olga Brunner Levi firmandosi Checo Smara). Quando si prepara a pronunciare il discorso di Quarto il nipote di Garibaldi, Peppino, gli propone di raggiungere lo scoglio fatale sbarcando dal mare: «Nella famiglia Garibaldi — annota il poeta — gli sbarchi sono una specie di
obbligo morale». Anche nelle situazioni di maggior tensione d’Annunzio ha la rara virtù di sdrammatizzare. Durante una missione aerea comunica con il pilota attraverso scritte su un taccuino. E se l’uomo ai comandi gli segnala che una bomba non s’è sganciata e rischia di esplodere al momento dell’atterraggio, lui prevede un «suicidio tragicomico». Pochi giorni dopo aver rischiato la vita cadendo da una finestra del Vittoriale si informa presso il dottor Duse: «L’Italia sa che io sono malaticcio?».
Gli amori passati vengono ridicolizzati. All’amico Masciantonio scrive: «Mi chiedi notizie del Grande Amore. Non so più nulla.
Perfettamente nulla, della tradita. Ella non morirà, certo. Le donne non muoiono mai. Si consolano sempre (Assioma)». Nei brevi messaggi che sono d’invito o di bilancio per le movimentate notti al Vittoriale il poeta non teme d’essere scurrile. A una delle ultime amanti manda mille lire per acquistar abiti. Motivo: «Io non ti vedo mai vestita». Un’amica francese che resiste alla sua corte viene ribattezzata «Nontivolio».
I nomignoli si sprecano pure il personale di casa. La cuoca Albina Becevello è «suor Intingola» o «suor Ghiottizia», l’architetto Maroni «il Caldeo», le domestiche «Pestapepe», «Musceppie», «Clarisse» o «Pissefisse».
La sua prodigalità è motivo di celia per lui stesso. Sostiene di avere una cosa in comune con San Francesco: «I buchi nelle mani». Pur di autocelebrarsi si definisce scenografo, arredatore, musico, pittore, tessitore, ornatore, guaritore, falegname, veggente. Nelle polemiche le sue iperboli offensive strappano sorrisi: Marinetti è «un cretino fosforescente», Croce «ha tanto ingegno quanto un bue nel ruminare», Luisa Casati Stampa è «la marchesa funebre», Toscanini «il sinfoniaco», la golosa Nietta Cassinari «gnam gnam», i giornalisti «catoncelli stercorari, grossi Beoti, criticoni e criticonzoli, bertucce giovinette, mammoni decrepiti». Invitato ad assistere a un gran Premio di motonautica sul lago di Como delude i suoi ospiti: «Il vostro lago mi sembra un bidet. Venite a fare le gare motonautiche sul Garda». Anche solo per questa battuta, il Benaco dovrebbe serbare perenne gratitudine all’ospite del Vittoriale e a Gatta, suo cantore.
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Idolo dei vignettisti L’autore del «Piacere» è stato il bersaglio prediletto, l’icona preferita di due generazioni di vignettisti