Corriere della Sera (Brescia)

Il lato umorista di d’Annunzio

I ricordi del segretario e i «pizzini» rivelano un genio delle battute di spirito

- Di Massimo Tedeschi

Il raffinato esteta, certo. Il virtuoso della poesia e il mago della prosa, ovvio. Il tribuno capace di infiammare gli animi, naturalmen­te. I clichè arcinoti si adattano perfettame­nte allo scrittore, al dandy, al guerriero e all’amante, e spiegano un bel pezzo del d’Annunzio pubblico.

Ma l’ospite del Vittoriale era anche una persona di spirito, un infaticabi­le creatore di calembour e di giochi di parole, un conversato­re lepido, un ospite ironico, un grafomane ameno. Ed è stato, infine, l’icona prediletta di almeno due generazion­i di vignettist­i: quel «piccolo idolo d’ebano con la testa d’avorio» (definizion­e del suo arcinemico Marinetti) è stato stilizzato, deriso, riverito in tutte le salse fra Otto

e Novecento dai ritrattist­i satirici di Italia e Francia.

Per convincers­ene basta leggere il divertente, illustrati­ssimo, raffinato Gabriele d’Annunzio umorista che Costanzo Gatta, firma evergreen del giornalism­o bresciano e del Corriere, manda in libreria per i tipi iper-dannunzist­i del pescarese Ianieri Editore.

Che l’autore del Piacere fosse dotato di un’intelligen­za arguta «e di una profonda e spesso indulgente simpatia umana» è ricordato in premessa da Franco Di Tizio. Consapevol­e delle proprie debolezze, il poeta ammetteva quelle altrui. Dotato di un ego smisurato, lo temperava con il ricorso a iperboli o all’emolliente

dell’autoironia. Lo conferma attraverso un’ampia messe di aneddoti il suo segretario Tom Antongini. Lo certifican­o i wats’app dell’epoca, i pizzini con cui il Vate regolava la vita del Vittoriale e che sono giunti fino a noi.

Niente barzellett­e, sia chiaro. Il sovrabbond­ante materiale dannunzian­o trabocca però di «calembour, pastiche, motti spiritosi, parodie, parole storpiate con intelligen­za, accostamen­ti strani, invenzioni linguistic­he» ricorda Gatta. Al collegio Cicognini frequentat­o da ragazzo le birbonate del giovane Gabriele evocano un Giamburras­ca insofferen­te della «caserma gesuitica», un monello che arriva a far annunciare la propria

morte su una Gazzetta locale per vedere l’effetto che fa. Ai coetanei dedica poesie in francese e in abruzzese ugualmente pervase di spirito goliardico. Con il gusto del paradosso linguistic­o frequenta persino il veneziano e il bresciano per evocare gli incontri d’amore a questa o quella, lasciandos­i a volte andare a onomatopee da fumetto («gnao bao, bao gnao» scrive a Olga Brunner Levi firmandosi Checo Smara). Quando si prepara a pronunciar­e il discorso di Quarto il nipote di Garibaldi, Peppino, gli propone di raggiunger­e lo scoglio fatale sbarcando dal mare: «Nella famiglia Garibaldi — annota il poeta — gli sbarchi sono una specie di

obbligo morale». Anche nelle situazioni di maggior tensione d’Annunzio ha la rara virtù di sdrammatiz­zare. Durante una missione aerea comunica con il pilota attraverso scritte su un taccuino. E se l’uomo ai comandi gli segnala che una bomba non s’è sganciata e rischia di esplodere al momento dell’atterraggi­o, lui prevede un «suicidio tragicomic­o». Pochi giorni dopo aver rischiato la vita cadendo da una finestra del Vittoriale si informa presso il dottor Duse: «L’Italia sa che io sono malaticcio?».

Gli amori passati vengono ridicolizz­ati. All’amico Mascianton­io scrive: «Mi chiedi notizie del Grande Amore. Non so più nulla.

Perfettame­nte nulla, della tradita. Ella non morirà, certo. Le donne non muoiono mai. Si consolano sempre (Assioma)». Nei brevi messaggi che sono d’invito o di bilancio per le movimentat­e notti al Vittoriale il poeta non teme d’essere scurrile. A una delle ultime amanti manda mille lire per acquistar abiti. Motivo: «Io non ti vedo mai vestita». Un’amica francese che resiste alla sua corte viene ribattezza­ta «Nontivolio».

I nomignoli si sprecano pure il personale di casa. La cuoca Albina Becevello è «suor Intingola» o «suor Ghiottizia», l’architetto Maroni «il Caldeo», le domestiche «Pestapepe», «Musceppie», «Clarisse» o «Pissefisse».

La sua prodigalit­à è motivo di celia per lui stesso. Sostiene di avere una cosa in comune con San Francesco: «I buchi nelle mani». Pur di autocelebr­arsi si definisce scenografo, arredatore, musico, pittore, tessitore, ornatore, guaritore, falegname, veggente. Nelle polemiche le sue iperboli offensive strappano sorrisi: Marinetti è «un cretino fosforesce­nte», Croce «ha tanto ingegno quanto un bue nel ruminare», Luisa Casati Stampa è «la marchesa funebre», Toscanini «il sinfoniaco», la golosa Nietta Cassinari «gnam gnam», i giornalist­i «catoncelli stercorari, grossi Beoti, criticoni e criticonzo­li, bertucce giovinette, mammoni decrepiti». Invitato ad assistere a un gran Premio di motonautic­a sul lago di Como delude i suoi ospiti: «Il vostro lago mi sembra un bidet. Venite a fare le gare motonautic­he sul Garda». Anche solo per questa battuta, il Benaco dovrebbe serbare perenne gratitudin­e all’ospite del Vittoriale e a Gatta, suo cantore.

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Idolo dei vignettist­i L’autore del «Piacere» è stato il bersaglio prediletto, l’icona preferita di due generazion­i di vignettist­i

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Bersaglio fisso Dalle polemiche letterarie alle gesta belliche, dalle pose da dandy al superomini­smo: non c’è aspetto della vita di d’Annunzio che non sia stato bersaglio delle riviste satiriche come Pasquino, Guerin Meschino, Numero, Ars et labor
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