La Vittoria Alata stregò sua altezza reale Margaret
Niente ascensore, una sedia spartana: eppure fu amore a prima vista
Settembre 1997. Una giornata di sole di fine estate per la prima ed ultima visita a Brescia di Margaret d’Inghilterra, sorella della Regina Elisabetta, secondogenita di Re Giorgio. Il sindaco Martinazzoli e il presidente della Provincia Lepidi affidano a me, assessore alla Cultura in Broletto, il compito di riceverla e accompagnarla nella visita. Il consolato britannico di Milano mi istruisce sui «modi» con cui accogliere Sua Altezza, istruzioni dettagliate sull’inchino reale impartite anche allo staff che verrà presentato all’illustre ospite (direzione musei, personale dell’assessorato, ecc). Margaret e il seguito si tratteranno a Brescia dalle due alle sette del pomeriggio. L’appuntamento è in via Musei, piazza del Foro. L’arrivo è puntuale.
Il corteo, otto macchine numerate come per una visita di Stato, segue un rigido protocollo. Prime a scendere sei guardie del corpo che disperdono con forza la curiosità di pochi giornalisti invadenti e il tentativo di abbraccio di un gruppuscolo entusiasta di monarchici e di pochi curiosi.
Margaret esce dall’auto con il suo accompagnatore ufficiale, celebre critico d’arte, baronetto della corona, collaboratore del Time, insegnante in varie università del Regno. Lei, senza un sorriso, la borsetta di plastica al braccio, cappellino di tulle, risponde agli inchini con una gelida stretta di mano. Il “sir”, di cui sfugge il nome, ma la cui notorietà negli studi sull’arte era nota anche da noi, chiarisce che Sua Altezza non conosce Brescia, non vi è mai stata, ha desiderato la visita solo per vedere da vicino la Vittoria Alata.
L’organizzazione del soggiorno — mi disse — è di un’ora per il celebre bronzo, un’ora per il the in un luogo riservato, e
poi il resto del pomeriggio per vedere qualcosa della città. L’itinerario, mi aggiunse, lo decida lei.
Brevissimi convenevoli, poi un controllato corteo dall’ingresso del capitolium verso la stanza al centro del parco archeologico dove era allora collocata la Vittoria Alata. Durante il tragitto pochissime parole di rito con Margaret.
Arrivammo davanti all’edificio, di cui al tempo erano evidenti le necessità di restauro, da cui si sale per accedere alla stanza della Vittoria. E qui si verificò la prima di una numerosa serie di inconvenienti che costelleranno la giornata, dovuti ad una condizione approssimativa dei caratteri dell’ accoglienza, ai quali la città era più o meno indifferente. L’accesso alla sala avveniva per una scaletta stretta, senza corrimano, una persona alla volta. Margaret e i suoi attendevano l’accesso dell’ascensore. «Non c’è», obiettai fra l’incredulità del seguito. Proteste vibranti, Margaret soffriva di disturbi respiratori. Non vi erano alternative, ahimè. Con qualche palese difficoltà la principessa salì i gradini, nemmeno puliti, e arrivò alla piccola stanza dove era esposto il celebre bronzo che l’aveva spinta alla trasferta. E qui altro inciampo.
«Ma come», urlò, a questo punto decisamente incredulo e infastidito il baronetto, capo delegazione: «Non c’è una sedia?». «Sediaaaa» urlai giù per le scale. La sedia arrivò dopo cinque interminabili minuti di attesa in un assordante silenzio imbarazzato. Era una di quelle sediacce di plastica da cantiere color cognac stinto dagli scarponi dei muratori che vi salivano per uso improprio. Ma era la sola disponibile. La porsi ad una Margaret un poco incredula che tuttavia vi appoggiò, grata, i glutei reali. Il suo accompagnatore intimò lo sfratto ai presenti. Poco dopo uscì anche lui, scendendo a metà scala.
Sua Altezza, mormorò sottovoce, vuole rimanere sola con la Vittoria. Decisamente la vista del bronzo, che Margaret conosceva per i suoi studi, l’aveva colpita. Quel capolavoro con cui era a contatto, mi disse più tardi, l’aveva emozionata. Meritava il viaggio.
Mi raccontò le sue passioni per l’archeologia, e le irresistibili attrazioni che la sua mente subiva davanti alle sculture bronzee. Questa «Afrodite» bresciana, aggiunse, l’aveva da sempre vista in immagine. Godersela dal vero, forse toccarla, con quella patina di verde che la rendeva lucente, e la contaminazione romana del panneggio aderente il corpo con pieghe molto strette che la faceva fisicamente «viva», avevano reso Sua Maestà di buon umore.
Scese dal suo «colloquio» dopo venti minuti di solitario dialogo. E rimase silenziosa fino quando ci sedemmo nel cortile interno di palazzo Martinengo dove il suo seguito servì un the «rinforzato» e lei cominciò a conversare rivelando quei sentimenti di stupore, ammirazione ed emozione, naturalmente contenuti come si conviene al rango. Il the delle cinque fu servito in mezz’ora. Poi la visita riprese in una città del tutto disinteressata alla presenza di Margaret.
Ripartì che erano le sette o poco più. Sul retro del teatro Grande, mentre saliva sulla autovettura numero cinque, per la prima volta accennò un sorriso. Confessò, con voce appena percepibile, in un compunto inglese con l’accento di casa reale, di aver trascorso un «delizioso pomeriggio in una bella città».
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La missione
Aveva fatto studi archeologici ed era venuta a Brescia apposta per vedere la statua: io ero incaricato del cerimoniale di accoglienza
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Il bilancio finale
Mentre saliva sulla vettura centrale di un convoglio di otto auto mi disse di avere trascorso «un delizioso pomeriggio in una bella città»