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Ripubblicata l’opera del 1908 del giornalista tedesco Hans Barth con prefazione di d’Annunzio Dalla Vecchia Gigola a Cipani, da Pedrazzi ai Promessi Sposi, bevute e incontri
«Da centinaia d’anni sta quaggiù sul lago la vecchia Gigola. Debolmente rischiarata da una lampada con paralume, è piena di pittoresche masserizie italiane».
Hans Barth, giornalista tedesco che agli inizi del 1900 s’è divertito a sostare in oltre 300 osterie d’Italia, entra «nella patriarcale osteriola» di Gardone del Benàco, e subito viene attirato da un album con firme illustri: quella del poeta Heyse che abitava vicino, dello scrittore Wolzogen, dello zoologo Haeckel. Poi, vedendo nelle vicinanze villa Martinengo, pensa «alla più romantica tragedia che mai un poeta possa immaginare»: la storia di Vittoria Accoramboni, «la più affascinante di tutte le Circi […]che incantava con un liquore migliore di ogni Chianti e d’ogni Asti spumante». Girando per osterie Barth non stimava solo il nettare di Bacco — che gli piaceva, eccome — ma descriveva l’incanto dei luoghi, frugava nella storia, nel mito, nella leggenda. E rivisitava vicende di personaggi esistiti o di fantasia. Non solo l’elogio del vino, ma ben altro si ritrova in «Osteria», guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri, primo vademecum enologico del 1908. Viene riproposto — editrice Verdone — da Enrico Di Carlo, saggista, dannunzista, bibliotecario all’università di Teramo, che ha arricchito il libro di doculo
menti inediti per farne meglio comprendere lo spirito. Ha scelto poi la seconda edizione in lingua italiana (traduzione di Giovanni Bistolfi, Le Monnier, Firenze 1921) con la prefazione che d’Annunzio scrisse nel 1909, da villa Peratoner in Marina di Pisa, a richiesta di Barth, rara avis. D’Annunzio negò presentazioni a chiunque ma non a Robert de Montesquiou e a Barth.
Come corrispondente da Roma del Berliner Tageblatt aveva intervistato il poeta nel 1904. Una semplice conoscenza. Lesse con attenzione il manoscritto e i nomi delle locande che avrebbe visto dodici anni dopo a Cargnacco. Non fu insensibile al fascino di uno scrittore arguto che sapeva coniugare cultura e vino.
Per Barth «il nocciolo bacchico
è cristallizzato in Maderno e Fasano». Bello sostare da Cipani «vero Eldorado per la gente in maniche di camicia, dove risuona il grido dei giocatori di morra. E questo dice già che il vino è buono». Allo spaccio di Pedrazzi in autunno torchiano l’uva «robusti garzoni in costume da sanculotti». Chi sono? Non i «Sodales sacrorum Toscolanorum che con la loro Pythia vengono un po’ a bere, ma sono invece bravi cittadini dell’ex-città dell’Impero Maderno. Perché già ai tempi di Ottone II, la cittadella di Maderno si assicurò i diritti di una città dell’Impero».
Di Carlo più volte s’è dedicato a d’Annunzio. Ne ha curato il carteggio con Masciantonio, il «Caro Pascal», lo ha accostato all’enogastronomia abruzzese. Ora
illustra come prefatore.
Ma torniamo al Garda. E lasciamo la bettola di Maderno per le birrerie di Salò. La Bavaria tenuta dalla «Pia Elena» (più zitella della regina Elisabetta) era preferita da Otto Erich Hartleben «il povero poeta che trasse l’ultimo respiro in questa riva incantata» e che «con tremante mano traeva alla bocca lo schiumoso bicchiere e cantava sull’aria della Marcia funebre di Chopin “Dopo la morte non c’è più alcool”». Familiare il nome dell’altra birreria: Wuehrer. Si apriva «a sinistra dell’antica porta veneziana del Carmine». Qui lo scrittore gode alla vista della volta «a tutto sesto, magnificamente dipinta (Ghirlandaio?)» e accontenta il palato: «La birra che viene da Brescia è sempre così buona come è la birra tedesca a casa nostra da che ci han nessi su la nuova tassa».
Ed ora un salto alla Bettola di Sant’Antonio «attaccata alla chiesa come il porchetto al santo» che ha per ostessa la vecchia Circe. È un «affumicato locale alla Salvator Rosa». A pochi passi «presso la tranvia elettrica che conduce a Gardone» trova I Promessi Sposi che ha sulla porta «un’insegna ov’è dipinto Renzo colla sua Lucietta celebrata dal Manzoni» e «per sciacquatoio un vecchio battistero».
Ed ecco l’osteria del Bue, «riconoscibile da un animale cornuto nell’insegna». Ora Barth si fa irriverente: «Poiché il Minotauro è volto verso un convento di monache che sta di fronte ci verrebbe voglia che non si tratti del mite quadrupede ma di un focoso toro». Sul soffitto dell’ Hotel Vittoria di Marta «che vien di Svevia … troneggia su una nube una splendida ostessa scollata fino alle anche». Qui la domenica risuonano «tutti gli accenti della lingua tedesca».
Altra tappa: All’Alpino locale «orribilmente pulito ma ospitale». E poi alla Bettola dei Cacciatori di via Garibaldi, presso la caserma dei Carabinieri. Qui c’è la figlioletta dell’oste ad affascinare il viaggiatore. Domanda: «Che pensasse proprio a lei il divino Carducci quando cantò le bianche braccia che si aprono in Salò e la scapigliata chioma ricciuta e le coronate tempie di una giovane Menade?». Altre osterie l’attendono sulla sponda veronese. E così Barth invita un vetturino a portarlo là dove Carducci «sotto una anacreontica pergola e all’ombra dei platani sedeva presso un purpureo vino».
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Indefesso L’autore, giornalista del Berliner Tageblatt, arrivò a recensire ben trecento locali in tutta la Penisola