Cala il sipario pure sul teatro inclusivo
Beatrice Faedi è l’ideatrice di «Somebody», progetto di teatro sociale inclusivo. Si definisce in modo scherzoso una teatrante e la sospensione delle attività causa coronavirus la prende a suo modo: «Una volta in Quaresima non si potevano fare rappresentazioni teatrali. Forse è un po’ il destino di progetti borderline come il nostro, poco istituzionalizzati e poco tutelati sul piano normativo». Certo, la sua compagnia è di cinquanta persone, un assembramento vero e proprio: «Siamo costretti a fare i gruppi carbonari, quattro alla volta, ma il laboratorio è un’altra cosa. Manca il contatto, l’empatia, la relazione». Pensa ai tanti che le hanno chiesto: «Quando ci vediamo?». In tanti c’è un progetto comune, il percorso che viene interrotto, un senso di comunità, un restare in sospeso. «Il teatro può anche essere una cura». È il conto non economico dell’interruzione, quello che il Pil non riuscirà mai a fotografare. Poi, sì, c’è anche quello: «Tutto azzerato, spettacoli che vengono posticipati a data da destinarsi ma che non si faranno più». Persone che di teatro vivono, ne hanno fatto una professione o comunque arrotondano, e che oggi si ritrovano ferme. Senza ammortizzatori di alcun genere. «Siamo sereni», sorride Beatrice Faedi che non vuole però sembrare una teatrante scapestrata. E la preoccupazione, almeno un po’ ma senza piangersi addosso, c’è.