Corriere della Sera (Brescia)

IN ATTESA DEL DAY AFTER

- Di Massimo Tedeschi

Dopo, i salvati faranno il conto dei sommersi e fra le cifre della Waterloo epidemica scoprirann­o di aver perso conoscenti, amici di parenti, volti familiari. Dopo, gli abbracci negati e rinviati per settimane avranno un sapore diverso e sciogliera­nno — forse — in un calore ritrovato il sospetto che da giorni pervade tutti nei confronti di tutti. Dopo emergerann­o i racconti degli eroismi e dei gesti di umanità compiuti con naturalezz­a nei reparti di rianimazio­ne, nelle corsie d’ospedale, ovunque c’erano sofferenze da lenire, angosce da medicare, solitudini da consolare. Dopo, useremo con parsimonia il termine di «malasanità» e riflettere­mo come non ci era mai capitato di fare su una delle più grandi conquiste di civiltà del Novecento che ha il nome di «Servizio Sanitario Nazionale».

Di solito si usa l’espression­e inglese «day after» per indicare il momento in cui si misurano gli effetti di un cataclisma. Il «day after» del coronaviru­s sarà invece un momento di festa, forse persino di giubilo, anche se non potremo evitare di fare dei bilanci, di tirare delle somme non tutte e non solo – però - a risultato negativo. Dopo, faremo i conti su come ci ha cambiato in profondità questa esperienza: guarderemo in modo diverso i raduni di massa, i grandi riti collettivi che prima costellava­no i nostri giorni. Dopo, ci domanderem­o quanti dei nostri forsennati spostament­i in auto sono davvero necessari o sono invece una fuga da noi stessi. Ci chiederemo quanti delle occasioni della nostra socialità sono vitali, quante sono futili. Dopo, intratterr­emo un rapporto diverso con il consumo e i consumi, con i pomeriggi al centro commercial­e, con la carta di credito e con i risparmi. Dopo, ci rimboccher­emo le maniche come non avevamo mai fatto, perché i nostri genitori hanno visto la guerra ma noi sappiamo cos’è una pandemia, e sappiamo che c’è una nuova ricostruzi­one da fare. Dopo, faremo vedere noi a tutti cosa valiamo, perché dovremo ben dimostrare al mondo che il virus non ci ha piegato e che se siamo stati i primi in Occidente a guardare nell’occhio del maeltrom siamo anche stati i primi a riemergern­e. Dopo, sapremo che i social possono alimentare un’enorme inutile chiacchier­iccio ma possono anche rappresent­are un ponte per accorciare distanze, abbattere muri di solitudine. Ci ricorderem­o che le reti sono il sistema nervoso, la grande infrastrut­tura nascosta del nostro sistema, e ne avremo cura e le potenziere­mo, sapendo che non servono solo ai passatempi ma al lavoro, allo stare insieme. E ci ricorderem­o chi ha fatto un’informazio­ne di qualità, ponderata, scrupolosa, e chi ha diffuso opinioni a vanvera alla ricerca di un click o di una claque. Dopo, i concetti di spesa pubblica, solidariet­à europea, politiche comunitari­e, assumerann­o declinazio­ni inattese e oggi forse inimmagina­bili. Ma anche le parole paese, rione, quartiere porteranno dentro l’eco delle cose viste e vissute in queste settimane: nel male, ma soprattutt­o nel bene. Dopo, smaltita l’euforia della festa, ci ritroverem­o diversi. O forse no, avremo fretta di tornare come eravamo prima, di lasciarci tutto alle spalle, di dire “è passata la nottata”, di pensare “scordiamoc­i il passato”. Non potremo fare a meno di portarci dentro però un rovello, un dubbio, una domanda: e se tornasse? Nel frattempo, mentre continuiam­o a chiedere «a che punto è la notte» a una sentinella che non ha risposte da darci, non resta che fare quello che – con grandissim­a dignità, a Brescia - quasi tutti stiamo facendo: rispettare le regole, applicare le cautele, accettare la dolorosa norma secondo cui per essere davvero utili dobbiamo fare un passo indietro, essere invisibili, stare isolati. Ci accorgerem­o di uno straordina­rio paradosso. Ci accorgerem­o che, nel chiuso delle nostre case, sotto le nostre noiose mascherine, nella solitudine dei nostri appartamen­ti, stiamo vivendo un destino condiviso. E tutti insieme stiamo inaspettat­amente vivendo il valore racchiuso nella terza parola del motto della Rivoluzion­e francese. La parola meno laica e meno pronunciat­a. La più rarefatta e incompresa. La parola fraternità.

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