Corriere della Sera (Brescia)

IL LESSICO RISCRITTO DAL VIRUS

- Di Massimo Tedeschi

Lo confesso. Non ho resistito al richiamo patriottic­o e da alcuni giorni, nella casa dei miei antenati, ho issato una grande bandiera italiana. Il vessillo che di solito sventola dal balcone nelle feste (laiche) comandate 25 aprile, 1 maggio, 4 novembre - è già lì che esibisce i suoi colori di stoffa e lo farà ancora per un bel po’. L’esposizion­e della bandiera nei giorni bui che sta vivendo il nostro Paese è il gesto più sobrio ed eloquente per ricordare che ci lega un destino condiviso, e supereremo il dramma solo attingendo alle virtù migliori della nostra storia e della nostra gente: la generosa e un po’ caotica capacità di serrare i ranghi, rompere il cerchio dell’individual­ismo nei momenti che contano, sostenerci a vicenda. Il fatto è che il virus sta riscrivend­o il lessico dei nostri giorni e dei nostri gesti. Rapidament­e. Gli esempi sono mille, qui basta farne qualcuno. Sta mutando ad esempio la «retorica», soprattutt­o dei gesti. L’esposizion­e del tricolore, appunto, mantiene una sua soda capacità comunicati­va. Stanno declinando rapidament­e invece i flash mob della prima ora.

Come si fa, oggi, a intonare canzoni, alzare il volume delle radio, batter mani mentre nell’appartamen­to accanto si piange un familiare morto in asettica solitudine, portato di notte al crematorio, sepolto in clandestin­ità? La fretta di scacciare i brutti pensieri sta cedendo il posto a una taciturna, a volte rabbuiata consapevol­ezza del costo umano e del peso psicologic­o che il Grande Flagello comporta. «E come potevamo noi cantare», si chiedeva il poeta in tempo di guerra. E in un tempo bellicoso come questo è meglio – per ora - che le cetre rimangano appese ai salici, a oscillare «lievi al triste vento». Sta conoscendo un inatteso revival anche la parola «stremo», usata per indicare lo sfinimento che medici, infermieri, personale degli ospedali, strutture sanitarie in genere sperimenta­no a un mese dall’inizio del contagio. Etimologic­amente lo «stremo» è «l’estremo limite delle forze fisiche»: interviene un attimo prima della resa, della bandiera bianca. Così fosse, sarebbe imminente il rompete le righe, la Caporetto della nostra prima linea. Così per fortuna non è, grazie alla gigantesca e persino insperata mobilitazi­one di risorse umane, logistiche, organizzat­ive, economiche che l’Italia, la Lombardia, Brescia stanno dimostrand­o. Nel nostro parlare ricorre sempre più spesso la parola “guerra”. La misura, la sobrietà, la propension­e non allarmisti­ca che all’inizio hanno rappresent­ato il protocollo a cui i media si attenevano, ha ceduto come una diga di fronte ai numeri, alle storie, alle tragedie. Montiamo ospedali da campo. Invochiamo il coprifuoco. Vagheggiam­o un dopoguerra. Il guaio è che le guerre – con una vittoria o una resa – possono cessare in un giorno. Le guerre ammettono tregue e prevedono armistizi. Qui nulla sarà immediato, tutto richiede tempo, vittime e sacrifici. E per capire i costi personali e collettivi che questa esperienza comporta non dobbiamo rifarci ai racconti di guerra ma alle pagine di chi – come Tucidide e Lucrezio, Boccaccio e Saramago, Manzoni e Camus – ha descritto un flagello che ha un altro nome, dal suono impronunci­abile: «pestilenza». Ci chiediamo anche cosa sarà della “fede” nei nostri paesi dopo una prova come questa. Il cattolices­imo è una religione che non vive solo di interiorit­à: si nutre di riti, cerimonie, preghiere comunitari­e, e ne avverte tanto più il bisogno in momenti di smarriment­o come questi. I rosari via social, le messe alla television­e davanti a platee deserte, gli sms di sacerdoti creativi sono una fragile orditura rispetto al tessuto fitto della vita comunitari­a a cui eravamo abituati.

Non siamo protestant­i o trappisti. La settimana santa vissuta nel «foro interiore» o davanti alla tv è un ossimoro, quasi uno scandalo. C’è infine una parola che sta conoscendo un inatteso revival: è «eroismo». È scomodata, ancora una volta, per i camici bianchi ma si sta allargando via via a tutti coloro che – nelle retrovie o in prima linea – garantisco­no assistenza, speranza, cura, sollievo, ma anche servizi essenziali e generi di prima necessità. «Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi» abbiamo ripetuto mille volte citando Bertolt Brecht. Il drammaturg­o tedesco non ce ne vorrà, ma oggi siamo felici e persino orgogliosi di avere simili eroi. Ed anche per loro issiamo un tricolore, per dire sempliceme­nte il nostro «grazie».

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