I sessant’anni del mitico Franco Baresi capitano per sempre
Poche parole, tanti fatti (e trofei, ben venti) e un numero. Il sei. Per sempre, come recita il famoso claim del Milan, l’unica squadra della sua vita insieme alla nazionale, la prima in Italia a ritirare una maglia in onore di un proprio campione. Oggi a quella cifra così simbolica va aggiunto uno zero, che non svaluta bensì ne amplifica la grandezza: Franco Baresi compie sessant’anni e per il nostro calcio è sempre una leggenda, per la sua Travagliato — dove tutto ebbe inizio — l’emblema da portare in giro per il mondo come una bandiera. Lui che può dire di esserlo stato davvero. A San Siro sventola sempre, in Curva Sud, quel drappo diventato mitico che non scolorisce di generazione in generazione. Baresi è stato l’anima del Milan per un terzo della sua vita: il capitano della squadra che a fine anni Ottanta ha cambiato la storia del gioco; qui ha vinto uno scudetto da neo maggiorenne, l’ha difesa nell’inferno della Serie B e l’ha portata sul trono d’Europa.
Ne fa ancora parte da dirigente, è l’uomo immagine da esibire all’estero, un passepartout universale. Ma Franco è stato Franchino, non solo per l’anagrafe, quando è cresciuto all’oratorio (San Michele) del suo paese, insieme ai fratelli Angelo e Beppe, divenuto poi avversario sulla sponda opposta del Naviglio. Quel ragazzo biondino e gracile ha avuto una madre (Regina, come poi si è chiamata anche la nipote di Franco, calciatrice dell’Inter femminile) e un padre (Terzo, uomo di campagna: qui curava i suoi terreni prima di essere investito da un’automobile quando i cinque figli non erano nemmeno adolescenti) scomparsi troppo presto, ma ha trovato nei campi della parrocchia la sua seconda casa e un trampolino per i suoi sogni, la palestra sociale in un’infanzia solitaria e timida; il calcio gli ha poi regalato altri due padri, Guido Settembrino e Paolo Mariconti.
Il primo, bresciano d’adozione, allenatore di uomini e non solo di calciatori, è l’uomo cui deve tutto: fu lui a portarlo da Travagliato a Milano quando aveva 14 anni, dopo aver promesso alla signora Regina che avrebbe pensato lui a Beppe e Franco. Il più vecchio finì all’Inter. Il più giovane non sembrava volerlo nessuno, poi il Milan al terzo provino si convinse. Fu la sua fortuna. E qui incontrò Mariconti, che lo protesse quando era ancora un «Piscinin», il nomignolo milanese che lo ha accompagnato a inizio carriera prima che divenisse Il Capitano e basta.
I più grandi attaccanti degli anni Ottanta e Novanta (chiedere a Romario o a Maradona, mentre Van Basten ebbe la fortuna di averlo come compagno) lo ricordano come l’avversario più duro. E più leale. Dietro alla scorza ruvida, a quella faccia un po’ così di chi era stato costretto a diventare adulto in fretta, c’era un’eleganza aristocratica.
Pulito nelle scivolate, con interventi sempre sulla palla e mai sull’uomo, era l’ultimo del reparto arretrato (il “libero”, ve lo ricordate?) e il primo a recuperare palla per impostare l’azione. Così moderno ed eclettico da essere avanti anni luce sulla concorrenza, come quando vinse un Mondiale – senza giocare – dopo una retrocessione in Serie B o quando ne perse un altro in finale, dodici anni dopo, recuperando a tempi record dopo essersi rotto un menisco.
Un marziano dal volto umano. Un mito mondiale eppure così fortemente bresciano. Questo era, è, sarà, Franco Baresi.