Corriere della Sera (Brescia)

Trent’anni fa le notti magiche di Vicini

Manlio racconta le notti magiche della Nazionale e della famiglia «Azeglio galantuomo sfortunato quel viaggio da Gardone a Napoli»

- di Luca Bertelli

Trent’anni fa l’Italia esordiva (contro l’Austria) nel suo Mondiale, quello in cui si trovò ad essere l’ombelico del pianeta per un mese: il calcio fu il mezzo per esibire il meglio di un Paese da bere, sfavillant­e nell’arte, nella moda. E pure nel pallone: gli azzurri arrivarono sulla scia di tre coppe europee vinte. L’Italia era bella, giovane, fresca come la nazionale guidata da Azeglio Vicini, il gentiluomo che nacque a Cesenatico e scelse Brescia per la vita. Quel ct affabile, elegante nella forma e nella sostanza, era il padre di tutta la nazione. Ebbe 50 milioni di figli acquisiti, tutti aspiranti commissari tecnici. Il primogenit­o di un popolo in fermento era Manlio Vicini, avvocato, all’epoca trentunenn­e. Il racconto di Italia 90 trova in lui la voce più fedele, più intima.

Si ricorda le sue notti magiche?

«Io e i miei fratelli (Lia e Gianluca, di 5 e 8 anni più giovani rispetto a lui, classe 59, ndr) facevamo la spola in macchina tra Brescia e Roma. Lo stadio Olimpico faceva effetto: era una marea azzurra che sospingeva la squadra. Mia madre Ines invece si era trasferita in un albergo della capitale per stare vicina a mio padre. Io ero già avvocato. E la mattina della semifinale avevo un’udienza a Gardone Riviera…».

Quella sfida maledetta con l’Argentina, a Napoli

«Fremevo perché arrivasse subito il verdetto: mi aspettava un lungo viaggio fino al San Paolo. In qualche modo arrivai, trafelato. E lì mi accorsi che sarebbe stata una partita tranello. Maradona usò le chiavi giuste alla vigilia, riuscì a portare molti napoletani dalla sua parte. Rispetto al calore di Roma, sembrò di giocare in campo neutro».

E finì male, ai rigori. Ha un frammento della reazione di suo padre? «Anche l’accettazio­ne delle sconfitte fa parte del suo calcio. È stato sfortunato, possiamo dirlo. Ma, dopo aver asciugato le lacrime ai suoi giocatori, disse che avrebbero dovuto vincere la finale terzo-quarto posto. E così fu»

Le ha mai riparlato di quella serata napoletana?

«No, anche perché in casa il calcio era quasi tabù. Ma più volte mi ha ribadito la convinzion­e che quella nazionale meritasse di vincere il Mondiale: non avevano mai subito gol fino alla semifinale e Caniggia segnò forse l’unico gol di testa nella sua vita. Inevitabil­e avere rimpianti: quella generazion­e era all’altezza, mio padre li aveva forgiati sin dall’Under 21».

C’era qualcosa di bresciano in quella nazionale, oltre a Franco Baresi?

«La serietà di quei giovani già adulti, un tratto della mia città che rivedo. Quel gruppo aveva tante stelle, ma prima di tutto veniva l’idea di squadra. Pensi a quanti di loro oggi fanno gli opinionist­i in tv: Bergomi, Ferri, Marocchi, Vialli. Erano educati, parlavano un ottimo italiano».

C’è un erede di Azeglio Vicini?

«Apprezzere­bbe molto il lavoro di Roberto Mancini, che fu uno dei suoi tanti figli azzurri. Vedo in lui una signorilit­à comune a mio padre e la stessa volontà di lanciare i giovani».

Chi era il suo giocatore preferito? E quello di suo padre?

«Io avevo una particolar­e simpatia per Vialli: Azeglio puntava molto su di lui, era un attaccante generoso che non pensava solo al gol. Purtroppo in quel Mondiale si infortunò. Papà ha sempre avuto un rapporto speciale con Zenga, è stato suo consiglier­e. Una volta lo mise sulla retta via, quando Walter era tentato dalla carriera televisiva: lo invitò a concentrar­si sul calcio e ora allena in Serie A».

Ora sarebbe impensabil­e, ma a Brescia il vostro numero era sulla guida del telefono.

«Mio padre non si è mai negato a nessuno. Né ai giornalist­i, né ai tifosi, soprattutt­o ai bambini che lo incontrava­no in centro città a passeggio con mia madre. Se dovessi pensare al messaggio che ha lasciato alle generazion­i future, penserei proprio alla dimensione ludica del calcio: un concetto cui teneva molto. Nella sua nazionale conviveva la fantasia di Donadoni, Giannini, Baggio, Vialli: erano tutti liberi di esprimersi. Il suo era un calcio romantico, senza dogmi»

Spensierat­o. Come quei giorni. Come quella nazionale mai così amata, mai così sfortunata.

I viaggi

Io insieme ai miei fratelli Lia e Gianluca facevamo la spola in macchina tra Brescia e Roma

Il tifo

Lo stadio Olimpico faceva effetto: era una marea azzurra che sospingeva tutta la squadra

Rimpianti

Più volte mi ha ribadito la convinzion­e che quella nazionale meritasse di vincere il Mondiale

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Amarcord Azeglio Vicini con Franco Baresi, sopra la formazione della Nazionale nel 1990 al Mondiale e a lato il figlio, l’avvocato Manlio

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