ATTACCO AL LESSICO ITALIANO
Lockdown, triage, droplet. Oltre alle note disgrazie, la pandemia ha portato anche un nuovo, infido, attacco alla lingua italiana, per non dire di quei dialetti ormai da requiem. I linguaggi istituzionali non aiutano, anzi: da tempo usano quell’inglese che in Parlamento mise a dura prova la lingua madre dell’on. Scilipoti, che dopo un faticoso corpo a corpo con l’impronunciabile stepchild adoption, se la cavò con un per lui ben più abbordabile «association» che non c’entrava niente con le adozioni paritetiche. In effetti, l’italiano – sviluppatosi sul fiorentino trecentesco – ha peculiarità ben differenti da quell’anglosassone d’origine germanica. C’è poi il capitolo dialetti. Le nostre «lingua del tetto» derivano da anni di «contaminazioni» linguistiche (cioè culturali). Se in bresciano chiamiamo asrticiòc un carciofo, lo dobbiamo alla dominazione carolingia, così come al sud una buàt di pelati deriva da boîte. Dialetti che non sono andati in conflitto con la lingua ufficiale del paese, affiancandosi ad essa in una sorta di marcatura territoriale sotto tutti gli aspetti, e contribuendo a scrivere le storie degli 8 mila comuni italiani che si compattano nella Storia d’Italia.
È avvilente riconoscerlo, ma la resa incondizionata dei nostri linguaggi a quella anglosassone ha motivazioni provinciali. (È sempre l’antica trappola di una malintesa modernità). Se ha infatti motivo di sussistenza nella sua declinazione commerciale, tecnica, scientifica, non ce l’ha nella comunicazione quotidiana relativa a tutto il resto. E i social – fra i tanti meriti – hanno anche questo, fra i loro – tanti – demeriti: l’aver cioè creato e promosso una sorta di neolingua (coerente in realtà col Grande Fratello FB), che inglese, spesso, non è, per certe risibili sgrammaticature. Atteggiamenti che possono procurare danni irreversibili sul piano identitario. L’azzeramento di una lingua è desertificazione culturale (con ricadute politiche). Da una inchiesta sui maturandi di qualche anno fa si scopriva come usassero ormai meno della metà dei vocaboli dei loro «colleghi» di 40 anni prima, perché molti vocaboli italiani sono andati in disuso, sostituiti da espressioni gergali d’origine anglosassone. Perdendo le parole si perde il pensiero, ché sono le parole a produrre il pensiero, non viceversa. È un campanello d’allarme per la scuola, in funzione di quelle nuove generazioni che potrebbero crescere prive di radici linguistiche, incapaci quindi di produrre una cultura se non omologata (asservita?) a una globalizzazione di stampo anglosassone. A pagare un dazio pesantissimo sarà la letteratura: in primis la poesia, sia quella in italiano che – ancor più – in dialetto.