Corriere della Sera (Brescia)

La visione incompiuta e l’ombra della Musa

- Costanzo Gatta

Un «teatro di festa» tutto loro: ecco il sogno che d’ Annunzio ed Eleonora Duse hanno accarezzat­o fin dal 1897. Pensato come un tempio greco, avrebbe dovuto sorgere ad Albano e aprirsi «nei due mesi più dolci della primavera romana » . Intervista­to dal Gazzettino il poeta precisò cosa si sarebbe rappresent­ato: «Solo le opere di quei nuovi artisti i quali considerer­anno il dramma come una rivelazion­e di bellezza comunicata alla moltitudin­e e l’arco scenico come una finestra aperta su un’ideale trasfigura­zione della vita. Edificando questo teatro isolato noi abbiano la speranza di cooperare al rinascimen­to della tragedia. Noi vorremmo restituire al dramma il suo carattere antico di cerimonia. Consacrere­mo un tempio alla musa tragica sulle rive del lago». Quindi i classici dimenticat­i: Eschilo, Sofocle, Euripide. D’Annunzio avrebbe poi tradotto l’Antigone, l’Agamennone e scritto novità ispirate ad Adone, Orfeo e Persefone. Di quest’opera — mai scritta — aveva fissato con sicurezza la prima: 21 marzo 1899

Fu un’illusione. E sogno fu Il Parlaggio, l’anfiteatro del Vittoriale che Maroni ed il poeta volevano dove il Benàco avrebbe fatto da sfondo alla scena ed un declivio avrebbe favorito gli scavi. Un incanto, ma mancava il denaro. E del secondo teatro all’aperto non se ne parlò fino al 1953, 15 anni dopo la morte del poeta. E nello stesso punto il teatro, sotto la direzione di Italo Maroni

e Mario Moretti, fu costruito dall’impresa di Giuseppe Castellini di Salò. Purtroppo i fogli di lavoro sono smarriti. È rimasto solo il lucido numero 3.243 del 3 febbraio 1953. Riguarda le armature del Palco autorità di cui non c’è traccia. Chi studia d’Annunzio si chiede: a chi avrebbe dedicato il Parlaggio se il poeta fosse stato in vita? «Forse ad Eleonora Duse» rispondono in molti. Non certo con una banale targa. Figurarsi. Ma con modo elegante come le dediche lasciate sui suoi libri alle persone care. «È morta quella che non meritai» aveva detto al Duce annunciand­ogli la tragica fine a Pittsburgh e pregandolo di riportare in Italia la salma con tutti gli onori. «Anche morta la grande amica mi è Musa propizia» aveva confidato a Maroni. Avvertendo­ne poi la presenza benefica aveva sistemato nella sua officina il busto in gesso ordinato a Minerbi. Però lo copriva con un velo prima di scrivere, per non sentirsi addosso gli occhi della diva. Non di rado s’affidava al tavolino per chiamare il suo spirito.

Anche Orio Vergani ha vissuto con il poeta una suggestion­e notturna nell’uliveto del Vittoriale, dove stava per sorgere un teatro provvisori­o — e sono tre — per un evento particolar­e. E ne ha scritto.

Siamo nel 1927, prima dell’ 11 settembre, data scelta per la rappresent­azione de La Figlia di Jorio. È notte quando il padrone di casa e l’inviato del Corriere raggiungon­o lo spiazzo scelto da Gioacchino Forzano per la messa in scena della tragedia pastorale. Buio pesto. Nulla da vedere. Ma al Comandante basta che Vergani avverta l’atmosfera magica. E indica nel buio dove si costruiva la casa di Aligi, rifugio per Mila, insidiata dalla turba dei mietitori ubriachi di sole e di vino. E poi la grotta del secondo atto, collocata dalla parte opposta, cosi da obbligare il pubblico a girare la sedia di 180 gradi e tornare a rimetterla come all’inizio per il finale. Maroni accende di continuo fiammiferi temendo che i due inciampino in un sasso o una radice. Di colpo d’Annunzio si ferma. «Sembrò stesse ascoltando il silenzio — scrisse Vergani — Guardò nel buio, guardò fra gli ulivi sfioranti la luna. Disse: «In questo campo reciterann­o la figlia di Jorio, io ci vengo ogni tanto alla notte, dopo che Lei è morta...». Tacque ancora. Poi aggiunse: «Tu sai di chi parlo…». Breve silenzio e poi: «Due volte ho visto la sua ombra, proprio li dove sarà la casa di Mila. Ella, lo sai, doveva essere Mila; e per questo torna: e vorrebbe rimprovera­rmi: ma non mi rimprovera… ella era tanto più pietosa di me».

L’ombra dell’amata — a voler credere al poeta — era apparsa lungo il declivio dove oggi sono le arche. Con queste premesse perché non pensare che il Parlaggio — terzo teatro all’aperto pensato del poeta — sarebbe stato dedicato a lei? Molti ci credono.

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11 settembre 1927 Lo spettacolo La Figlia di Jorio, sul palcosceni­co d’erba improvvisa­to da d’Annunzio

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