«Prof, ma a cosa mi serve dopo?»
Raccontiamo storie morte, ma che alimentano la nostra inesauribile curiosità
Nel percorso di crescita di ogni alunno ci sono domande ricorrenti associate ad anni specifici: peculiarità degli anni del biennio della scuola superiore sono gli interrogativi sulla spendibilità degli studi intrapresi. All’inizio del secondo ciclo superiore le cose, invece, cambiano.
All’inizio del secondo ciclo superiore i ragazzi sentono di aver identificato esattamente lo spirito dei tempi in cui vivono sulla base di ciò che si è fatto e sofferto in casa o della propria storia personale. Così, come fiumi carsici, nel corso dell’anno riemergono periodicamente le stesse domande: «Cosa me ne faccio dopo di quello che studio ora?». Ben inteso che ciò che serve domani per loro è esclusivamente ciò che può procurare un guadagno economico. A scuola, d’altronde, si studia ciò che è morto: poeti morti, scrittori morti, personaggi morti della storia della letteratura che spesso parlano di morte. Quale vantaggio può venirne a un adolescente che si sente già sul trampolino della vita pronto a tuffarsi nell’oceanico mondo del lavoro? Morti e vivi gli appaiono divisi in modo irrecuperabile, una contrapposizione radicale dove ieri e domani si trovano ai due angoli opposti. Ma immaginiamo che per una volta i desideri degli studenti vengano realizzati ed essi si ritrovino nel domani prima che l’oggi accada, come se vivessero nella figura retorica dell’hysteron proteron: un esempio si trova nell’Eneide: «Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi». Se i nostri alunni avessero esperienza del lavoro prima di andare a scuola, quale nuovo sentimento maturerebbe in loro? Probabilmente quello che ritrovo in molti studentilavoratori dei corsi serali: una gran voglia di alimentare il desiderio di sapere. Lo esemplifica bene Agostino in un passo del De Trinitate: «Supponiamo che qualcuno oda il suono di una parola ormai in disuso di cui ignora il significato. Certamente, ignorando che cosa essa voglia dire, desidererà saperlo. Ma, per questo, è necessario che egli sappia già che il suono che ha udito non è una vuota voce, ma un suono dotato di significato [...] Colui che con ardente zelo cerca di sapere e, acceso dallo studio, persevera, si può dire che sia senza amore? Che ama dunque?» La risposta è che ama il fatto di sapere che quella parola significa qualcosa. Si tratta dell’esperienza amorosa come volontà di sapere. Quanti conoscono il significato di parole come schilletta, sericcia, accia? Continuamente il lettore di Pascoli è davanti al testo come lo straniero che non conosce il significato delle parole, ma Pascoli conta su un lettore che non conosce tutte le parole che egli usa perché l’uso di parole estranee alla lingua viva risponde allo stesso motivo che avvicina Agostino alla parola morta. Oltre la comprensione logica dei fondamenti economici che iniziano a prendere forma nella mente adolescente, bisogna dunque alimentare l’amore per l’incognita stessa della vita che è esemplificata dalla vaghezza della parola poetica che non trapasserà mai in un significato esatto, determinato. Questo significato, che rimane sempre di là da venire, è posto a garanzia dell’inesauribile curiosità dell’essere umano.