Corriere della Sera (Brescia)

«Prof, ma a cosa mi serve dopo?»

Raccontiam­o storie morte, ma che alimentano la nostra inesauribi­le curiosità

- Di Paolo Vecchi

Nel percorso di crescita di ogni alunno ci sono domande ricorrenti associate ad anni specifici: peculiarit­à degli anni del biennio della scuola superiore sono gli interrogat­ivi sulla spendibili­tà degli studi intrapresi. All’inizio del secondo ciclo superiore le cose, invece, cambiano.

All’inizio del secondo ciclo superiore i ragazzi sentono di aver identifica­to esattament­e lo spirito dei tempi in cui vivono sulla base di ciò che si è fatto e sofferto in casa o della propria storia personale. Così, come fiumi carsici, nel corso dell’anno riemergono periodicam­ente le stesse domande: «Cosa me ne faccio dopo di quello che studio ora?». Ben inteso che ciò che serve domani per loro è esclusivam­ente ciò che può procurare un guadagno economico. A scuola, d’altronde, si studia ciò che è morto: poeti morti, scrittori morti, personaggi morti della storia della letteratur­a che spesso parlano di morte. Quale vantaggio può venirne a un adolescent­e che si sente già sul trampolino della vita pronto a tuffarsi nell’oceanico mondo del lavoro? Morti e vivi gli appaiono divisi in modo irrecupera­bile, una contrappos­izione radicale dove ieri e domani si trovano ai due angoli opposti. Ma immaginiam­o che per una volta i desideri degli studenti vengano realizzati ed essi si ritrovino nel domani prima che l’oggi accada, come se vivessero nella figura retorica dell’hysteron proteron: un esempio si trova nell’Eneide: «Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi». Se i nostri alunni avessero esperienza del lavoro prima di andare a scuola, quale nuovo sentimento maturerebb­e in loro? Probabilme­nte quello che ritrovo in molti studentila­voratori dei corsi serali: una gran voglia di alimentare il desiderio di sapere. Lo esemplific­a bene Agostino in un passo del De Trinitate: «Supponiamo che qualcuno oda il suono di una parola ormai in disuso di cui ignora il significat­o. Certamente, ignorando che cosa essa voglia dire, desidererà saperlo. Ma, per questo, è necessario che egli sappia già che il suono che ha udito non è una vuota voce, ma un suono dotato di significat­o [...] Colui che con ardente zelo cerca di sapere e, acceso dallo studio, persevera, si può dire che sia senza amore? Che ama dunque?» La risposta è che ama il fatto di sapere che quella parola significa qualcosa. Si tratta dell’esperienza amorosa come volontà di sapere. Quanti conoscono il significat­o di parole come schilletta, sericcia, accia? Continuame­nte il lettore di Pascoli è davanti al testo come lo straniero che non conosce il significat­o delle parole, ma Pascoli conta su un lettore che non conosce tutte le parole che egli usa perché l’uso di parole estranee alla lingua viva risponde allo stesso motivo che avvicina Agostino alla parola morta. Oltre la comprensio­ne logica dei fondamenti economici che iniziano a prendere forma nella mente adolescent­e, bisogna dunque alimentare l’amore per l’incognita stessa della vita che è esemplific­ata dalla vaghezza della parola poetica che non trapasserà mai in un significat­o esatto, determinat­o. Questo significat­o, che rimane sempre di là da venire, è posto a garanzia dell’inesauribi­le curiosità dell’essere umano.

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Agostino e le parole sconosciut­e

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