La sfida del rettore: «Più laureati E la fuga all’estero va frenata»
Amministrativi e studenti chiedono il cessate il fuoco
L’inaugurazione dell’anno accademico vive anche di riti. I docenti hanno la toga, il rettore l’ermellino, il Chorus accompagna l’inno nazionale e quello europeo, tra le autorità non si contano assenti. È una festa, l’orgoglio di una comunità università. E però, può essere, anche una preziosa occasione per osservare un pezzo di mondo da una prospettiva universitaria, che per sua natura è aperta alle collaborazioni internazionali, alla ricerca, all’internazionalizzazione.
Ieri il rettore Francesco Castelli questo mondo lo ha raccontato a braccio. Aveva l’ermellino ma è stato ben poco formale, preferendo la condi cretezza delle slide e non celando i problemi. Non tanto dell’università bresciana, che tutto sommato se la cava più che dignitosamente per didattica, ricerca, posizionamento nelle classifiche internazionali, straordinaria occupabilità degli studenti laureat i , attenzione alla sostenibilità, quanto del sistema Italia nel suo insieme. Castelli ha ricordato che tra i target dell’Unione europea da qui al 2030 c’è quello di avere il 45% della popolazione tra i 25 e i 34 anni con un titolo terziario.
Non è un vezzo da intellettuali ovviamente, ma ha molto a che fare il benessere delle persone e le prospettive di crescita sociale ed economica delle persone. «Credo di non dover spendere molte parole in questa assemblea— ha osservato Castelli — per affereuropeo, mare il valore essenziale del capitale umano nello sviluppo culturale, economico e sociale di ogni comunità umana». Ebbene, l’Italia oggi è al 28%, ben lontana da quella percentuale, con grandi differenze al suo interno. A Bologna sono già al 43%, a Taranto annaspano al 13%. Brescia è intorno al 24%, complice un sistema produttivo che attrae molto lavoro ma non necessariamente con la laurea.
In Lombardia, soprattutto nella parte occidentale dove c’è anche una più alta concentrazione di università, sono messi decisamente meglio. Poi ci sono i Neet, acronimo inglese che indica quelli che non studiano e non lavorano ma che sono in età per farlo: anche in questo caso l’Italia è quasi fanalino di coda mentre Brescia lo è un po’ meno. A completare il quadro ci sono denatalità spinta («In questo momento l’Italia è il Paese che contribuisce di più, a livello alla diminuzione della popolazione attiva») e una progressiva fuga di laureati all’estero «dove trovano condizioni di vita e di lavoro più consone al proprio titolo di studio, sia in termini salariali che di riconciliazione vita-lavoro, e dove sono accolti ovviamente con favore per il loro grado eccellente di pre