Corriere della Sera (Brescia)

La sfida del rettore: «Più laureati E la fuga all’estero va frenata»

Amministra­tivi e studenti chiedono il cessate il fuoco

- Thomas Bendinelli

L’inaugurazi­one dell’anno accademico vive anche di riti. I docenti hanno la toga, il rettore l’ermellino, il Chorus accompagna l’inno nazionale e quello europeo, tra le autorità non si contano assenti. È una festa, l’orgoglio di una comunità università. E però, può essere, anche una preziosa occasione per osservare un pezzo di mondo da una prospettiv­a universita­ria, che per sua natura è aperta alle collaboraz­ioni internazio­nali, alla ricerca, all’internazio­nalizzazio­ne.

Ieri il rettore Francesco Castelli questo mondo lo ha raccontato a braccio. Aveva l’ermellino ma è stato ben poco formale, preferendo la condi cretezza delle slide e non celando i problemi. Non tanto dell’università bresciana, che tutto sommato se la cava più che dignitosam­ente per didattica, ricerca, posizionam­ento nelle classifich­e internazio­nali, straordina­ria occupabili­tà degli studenti laureat i , attenzione alla sostenibil­ità, quanto del sistema Italia nel suo insieme. Castelli ha ricordato che tra i target dell’Unione europea da qui al 2030 c’è quello di avere il 45% della popolazion­e tra i 25 e i 34 anni con un titolo terziario.

Non è un vezzo da intellettu­ali ovviamente, ma ha molto a che fare il benessere delle persone e le prospettiv­e di crescita sociale ed economica delle persone. «Credo di non dover spendere molte parole in questa assemblea— ha osservato Castelli — per affereurop­eo, mare il valore essenziale del capitale umano nello sviluppo culturale, economico e sociale di ogni comunità umana». Ebbene, l’Italia oggi è al 28%, ben lontana da quella percentual­e, con grandi differenze al suo interno. A Bologna sono già al 43%, a Taranto annaspano al 13%. Brescia è intorno al 24%, complice un sistema produttivo che attrae molto lavoro ma non necessaria­mente con la laurea.

In Lombardia, soprattutt­o nella parte occidental­e dove c’è anche una più alta concentraz­ione di università, sono messi decisament­e meglio. Poi ci sono i Neet, acronimo inglese che indica quelli che non studiano e non lavorano ma che sono in età per farlo: anche in questo caso l’Italia è quasi fanalino di coda mentre Brescia lo è un po’ meno. A completare il quadro ci sono denatalità spinta («In questo momento l’Italia è il Paese che contribuis­ce di più, a livello alla diminuzion­e della popolazion­e attiva») e una progressiv­a fuga di laureati all’estero «dove trovano condizioni di vita e di lavoro più consone al proprio titolo di studio, sia in termini salariali che di riconcilia­zione vita-lavoro, e dove sono accolti ovviamente con favore per il loro grado eccellente di pre

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