Opere contro gli stereotipi
Al Pac lamostra di Adrian Piper faro dell’arte contemporanea grazie ai suoi lavori che ribaltano pregiudizi politici e di genere Il curatore: frutto di un lungo percorso. Espone solo ogni 4 anni
AMadrid, davanti alla grande tela de Las Meninas dipinta da Velázquez, il genio della pittura barocca Luca Giordano chinò la testa e dichiarò che quella era «la teologia della pittura». L’accostamento può sembrare audace, ma anche la mostra che damartedì 19 il Pac dedica a Adrian Piper (New York, 1948), artista concettuale, minimalista e performer affermatasi nella scena newyorkese dalla fine degli anni Sessanta, può essere considerata una summa teologica.
Per tre ragioni: la prima è che rappresenta il culmine teoretico di dieci anni di lavoro del curatore Diego Sileo alla guida dello spazio di via Palestro all’insegna dell’arte impegnata; in secondo luogo perché l’artista, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2015, è considerata un riferimento assoluto dell’arte contemporanea; e infine anche perché la Piper ha una solida formazione kantiana che l’ha portata a insegnare filosofia nell’università e che traspare in tutti i lavori a cominciare da uno dei primi esposti, una riflessione sulle pagine della «Critica della ragion pura» di Kant.
Si sarà già capito che la retrospettiva, la prima europea dopo oltre vent’anni, non è dunque esattamente una passeggiata di svago. Eppure è un tale evento che sta già catalizzando l’attenzione dall’estero e attirando prenotazioni di studiosi, studenti e ammiratori, essendo la Piper un’artista da libri di testo. Sileo ci ha lavorato dal 2019: «Sapevo che la Piper accetta di fare solo una mostra ogni quattro anni, ma le ho mandato lo stesso il mio progetto e quando l’ha accettato abbiamo cominciato a dialogare. È stato un lungo percorso per arrivare a concentrare il senso del suo intero lavoro. Manmano che definivamo le tappe, contattavo i musei prestatori (l’ottanta per centro delle sue opere sono musealizzate) e i collezionisti fra cui diversi artisti come Cindy Sherman che la considera il suo faro».
Non a caso; perché fra i primi lavori della Piper ci sono le performance con baffi, parrucca e occhiali da sole per impersonare un alter ego maschile «The Mythic Being», che esprimeva gli stereotipi estetici del giovane maschio afroamericano. All’inizio, nel 1967, a cambiargli la vita, fu l’incontro con Sol LeWitt, maestro del Concettuale e delMinimalismo.
Una folgorazione, come quella per Kant, che non l’ha più abbandonata, perché da allora la Piper ha introdotto i temi sociali, politici e di genere nel rigore geometrico del linguaggio minimalista e nelle gabbie razionali del pensiero kantiano. Ecco perché la Piper è una «Race Traitor», come recita il titolo dellamostra, una traditrice della sua razza: di carnagione troppo bianca per i neri e troppo nera per i bianchi; troppo intellettuale per i neri e troppo «woke», cioè sensibile ai temi delle discriminazioni, per i bianchi. A sorpresa, il finale dellamostra è un momento di alleggerimento: nella project room, infatti, sono proiettati i video delle performance in cui la Piper si è misurata con la musica funk e la danza. E ogni visitatore è invitato a scatenarsi con lei.