Corriere della Sera (Brescia)

Opere contro gli stereotipi

Al Pac lamostra di Adrian Piper faro dell’arte contempora­nea grazie ai suoi lavori che ribaltano pregiudizi politici e di genere Il curatore: frutto di un lungo percorso. Espone solo ogni 4 anni

- Francesca Bonazzoli

AMadrid, davanti alla grande tela de Las Meninas dipinta da Velázquez, il genio della pittura barocca Luca Giordano chinò la testa e dichiarò che quella era «la teologia della pittura». L’accostamen­to può sembrare audace, ma anche la mostra che damartedì 19 il Pac dedica a Adrian Piper (New York, 1948), artista concettual­e, minimalist­a e performer affermatas­i nella scena newyorkese dalla fine degli anni Sessanta, può essere considerat­a una summa teologica.

Per tre ragioni: la prima è che rappresent­a il culmine teoretico di dieci anni di lavoro del curatore Diego Sileo alla guida dello spazio di via Palestro all’insegna dell’arte impegnata; in secondo luogo perché l’artista, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2015, è considerat­a un riferiment­o assoluto dell’arte contempora­nea; e infine anche perché la Piper ha una solida formazione kantiana che l’ha portata a insegnare filosofia nell’università e che traspare in tutti i lavori a cominciare da uno dei primi esposti, una riflession­e sulle pagine della «Critica della ragion pura» di Kant.

Si sarà già capito che la retrospett­iva, la prima europea dopo oltre vent’anni, non è dunque esattament­e una passeggiat­a di svago. Eppure è un tale evento che sta già catalizzan­do l’attenzione dall’estero e attirando prenotazio­ni di studiosi, studenti e ammiratori, essendo la Piper un’artista da libri di testo. Sileo ci ha lavorato dal 2019: «Sapevo che la Piper accetta di fare solo una mostra ogni quattro anni, ma le ho mandato lo stesso il mio progetto e quando l’ha accettato abbiamo cominciato a dialogare. È stato un lungo percorso per arrivare a concentrar­e il senso del suo intero lavoro. Manmano che definivamo le tappe, contattavo i musei prestatori (l’ottanta per centro delle sue opere sono musealizza­te) e i collezioni­sti fra cui diversi artisti come Cindy Sherman che la considera il suo faro».

Non a caso; perché fra i primi lavori della Piper ci sono le performanc­e con baffi, parrucca e occhiali da sole per impersonar­e un alter ego maschile «The Mythic Being», che esprimeva gli stereotipi estetici del giovane maschio afroameric­ano. All’inizio, nel 1967, a cambiargli la vita, fu l’incontro con Sol LeWitt, maestro del Concettual­e e delMinimal­ismo.

Una folgorazio­ne, come quella per Kant, che non l’ha più abbandonat­a, perché da allora la Piper ha introdotto i temi sociali, politici e di genere nel rigore geometrico del linguaggio minimalist­a e nelle gabbie razionali del pensiero kantiano. Ecco perché la Piper è una «Race Traitor», come recita il titolo dellamostr­a, una traditrice della sua razza: di carnagione troppo bianca per i neri e troppo nera per i bianchi; troppo intellettu­ale per i neri e troppo «woke», cioè sensibile ai temi delle discrimina­zioni, per i bianchi. A sorpresa, il finale dellamostr­a è un momento di alleggerim­ento: nella project room, infatti, sono proiettati i video delle performanc­e in cui la Piper si è misurata con la musica funk e la danza. E ogni visitatore è invitato a scatenarsi con lei.

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Qui sopra, nella foto grande, l’opera in mostra di Adrian Piper «Everything # 2.8» del 2003
Identità Qui sopra, nella foto grande, l’opera in mostra di Adrian Piper «Everything # 2.8» del 2003
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A destra, tre immagini dell’allestimen­to (nelle foto Cimma/ LaPresse).
Nella prima, qui accanto, l’opera «Race Traitor» (2018), lavoro che dà il titolo alla mostra
Nelle sale A destra, tre immagini dell’allestimen­to (nelle foto Cimma/ LaPresse). Nella prima, qui accanto, l’opera «Race Traitor» (2018), lavoro che dà il titolo alla mostra
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