Corriere della Sera - Io Donna
Cinema
documentario Non un’inchiesta, come ci si poteva aspettare dal soggetto, Lampedusa. Piuttosto un’opera di avvicinamento e di osservazione per capire l’isola, i suoi abitanti - il bambino che gioca con la fionda, lo zio pescatore, il dj, la nonna cuoca, il medico della Asl… - e i problemi che le sono caduti addosso con l’esodo dei profughi dall’Africa. Gianfranco Rosi usa il cinema come strumento di conoscenza per scavare nelle persone e nelle situazioni, senza preoccuparsi di definire il genere del suo lavoro (documentario? docu-fiction? reportage?), ma cercando di coglierne la verità. Per questo gli immigrati arrivano a metà film, con immagini sconvolgenti e insieme rispettose, mai sensazionali o voyeuristiche. E, per capire le sofferenze dei sopravvissuti, basta una canzone improvvisata da uno di loro. Rosi si guarda bene dal fare discorsi o proclami, scava nei particolari ( l’occhio pigro, che è del piccolo Samuele, ma anche di tutta l’Italia) e restituisce al cinema la dignità del Neorealismo, oggi come allora capace di mostrare in modo nuovo quello che accade intorno a noi.