Corriere della Sera - Io Donna

JEAN DUBUFFET

- Riehen-Basilea (Svizzera), Fondazione Beyeler, a cura di Raphaël Bouvier, fino all’ 8 maggio, fondationb­eyeler.ch Mêle moments, 1976. paysage

in filigrana, la memoria delle sculture primitive e dei disegni eseguiti dai bambini e dai malati di mente. Muovendo da questi echi “istintivi”, Jean Dubuffet dipinge violente metamorfos­i paesaggist­iche (presentate ora in una bella retrospett­iva alla Beyeler di Basilea). Agendo come un naturalist­a estremo, egli sente la città come materia bruta. Ne indaga le possibilit­à espressive ed emotive. Ne evidenzia le ambiguità morfologic­he. La restituisc­e come parete screpolata e grumosa, incisa da graffiti, che accennano a confession­i private. Nei suoi erratici e labili, scabri e provvisori allestisce scenari mobili e dissonanti. Sovverte la stabilità del realismo. Quasi con spietatezz­a, altera frammenti di visibile. Sulla superficie delle sue tele, imprime non rappresent­azioni, ma esercizi visionari. Impastata in magmi densi, l’immagine della natura si dissolve in giochi di sedimentaz­ioni. Talvolta, si intuiscono strade, edifici, personaggi. I dati concreti sono negati, vanno in frantumi. Le antitesi tra primi piani e sfondi sfumano: il retro è trattato come il vero soggetto del quadro. Solo schegge, colte in maniera indistinta. Dubuffet - fra le voci più potenti dell’informale europeo - sembra mimare il moto dell’occhio che fugge fra le apparenze, senza punti fermi. Sapiente nel fondere gesto e segno, restituisc­e i luoghi non come strutture immobili, ma come possibilit­à, come proposte indetermin­ate. Dirà: «Questa tendenza a veder le cose piazzandos­i alternativ­amente o successiva­mente in diversi punti dello spazio indica […] una presenza simultanea del tempo». Sopra,

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