Corriere della Sera - Io Donna
JEAN DUBUFFET
in filigrana, la memoria delle sculture primitive e dei disegni eseguiti dai bambini e dai malati di mente. Muovendo da questi echi “istintivi”, Jean Dubuffet dipinge violente metamorfosi paesaggistiche (presentate ora in una bella retrospettiva alla Beyeler di Basilea). Agendo come un naturalista estremo, egli sente la città come materia bruta. Ne indaga le possibilità espressive ed emotive. Ne evidenzia le ambiguità morfologiche. La restituisce come parete screpolata e grumosa, incisa da graffiti, che accennano a confessioni private. Nei suoi erratici e labili, scabri e provvisori allestisce scenari mobili e dissonanti. Sovverte la stabilità del realismo. Quasi con spietatezza, altera frammenti di visibile. Sulla superficie delle sue tele, imprime non rappresentazioni, ma esercizi visionari. Impastata in magmi densi, l’immagine della natura si dissolve in giochi di sedimentazioni. Talvolta, si intuiscono strade, edifici, personaggi. I dati concreti sono negati, vanno in frantumi. Le antitesi tra primi piani e sfondi sfumano: il retro è trattato come il vero soggetto del quadro. Solo schegge, colte in maniera indistinta. Dubuffet - fra le voci più potenti dell’informale europeo - sembra mimare il moto dell’occhio che fugge fra le apparenze, senza punti fermi. Sapiente nel fondere gesto e segno, restituisce i luoghi non come strutture immobili, ma come possibilità, come proposte indeterminate. Dirà: «Questa tendenza a veder le cose piazzandosi alternativamente o successivamente in diversi punti dello spazio indica […] una presenza simultanea del tempo». Sopra,