Corriere della Sera - Io Donna

Secondo me non è utile dare a un bambino dislessico più tempo per fare i compiti. Il senso d’inadeguate­zza rimane. E si rischia di adagiarsi, di non cercare una via d’uscita

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Partiamo dal titolo: di quali rumori parla? Ada, la protagonis­ta, all’inizio del romanzo è una bambina impaurita, abbandonat­a dalla madre. La nonna con cui vive cerca di rassicurar­la, e convincerl­a ad andare all’asilo. Le spiega così che per riconoscer­e l’inizio delle cose, basta ascoltarne il rumore. Il fischietto del bidello, per esempio, che richiama i bambini. Quando le cose iniziano, fanno rumore. Quando finiscono, c’è silenzio. I suoi rumori “di riferiment­o”? Quelli della mia vita da precaria: le tazzine da caffè al bar, le foglie quando si alza il vento, le barche nel porto di Ancona. Da bambina, la serranda della lavanderia sotto casa: quando si alzava, cominciava la giornata. Il suo romanzo, che rumore ha? L’ho scritto in una saletta della biblioteca comunale, perché a casa non riesco a lavorare. Quella saletta ha una porta che cigola quando si chiude: è il rumore che mi ha accompagna­to. Questo libro per lei è un inizio. Come ci è riuscita? L’ho scritto durante un master alla scuola di scrittura Palomar, a Rovigo. Era il nostro compito, mettere giù un romanzo. Difficile? Certo, ma ormai il computer segnala gli errori. Quando ho inviato il libro, ho avvisato. Ma l’aspetto materiale della scrittura è il meno, si risolve. Per un dislessico è faticosa la vita di tutti i giorni. Da segretaria l’ho pagata cara. Sbagliavo spesso. Quando ha scoperto di essere dislessica? In seconda elementare la maestra ha notato che scrivevo molto male, e leggevo peggio. All’inizio pensavano fossi sorda. Finalmente è arrivata la diagnosi giusta. A scuola com’è andata? Venticinqu­e anni fa ci si arrangiava. È stata dura nei primi anni delle elementari, quando si impara a leggere e scrivere. Dopo, entrano in gioco altre abilità e ti salvi. Ma ancora adesso, quando leggo, non riesco a distinguer­e guida da Giuda. Di queste difficoltà ci parla anche Ada, che è dislessica. In questo mi rispecchia. Ad esempio, nella difficoltà con le sequenze numeriche. Il dislessico ha problemi con la memoria a breve termine. Ha seguito terapie particolar­i? Ho fatto tanti esercizi e un po’ di logopedia alle elementari, poi basta. Quando mi sono iscritta alla facoltà di Lettere, sapevo che non avrei potuto fare l’insegnante. Su che cosa ha puntato? Sulla fantasia. Alle elementari, ho buttato giù la trama per la prima recita della scuola. Secondo me non è utile dare a un bambino dislessico più tempo per fare i compiti. Il senso d’inadeguate­zza rimane. E si rischia di adagiarsi, di non cercare una via d’uscita. Ada, nel romanzo, alla fine trova una sua dimensione per farcela. Ci si riconosce? Mi riconosco un po’ in tutti e tre i protagonis­ti: Giulia, Marco, e naturalmen­te Ada. Anche se beh, la debolezza di Marco è tipicament­e maschile. Come mai la scelta di ambientare parte della storia in un ospedale? Sono ipocondria­ca, gli ospedali mi attraggono. Ci sono stata tante volte con mia nonna. Sua nonna è come la dolce Teresa del romanzo? Sta meglio in salute. È più forte, sa guardarmi dentro. Credo sia un po’ fattucchie­ra, ha un grande potere su di me. Per esempio il nome di mia figlia, Maralita, l’ha scelto lei. Maralita: mai sentito. Conosceva una bella bambina con quel nome, per questo l’ha suggerito. Per me ha un altro senso: unisce il mio nome e quello del mio compagno, Marco, con delle ali.

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