Corriere della Sera - Io Donna
VISIONE PERSONALE
alla fine del secolo scorso, durante un’estate tormentata che lentamente mi avrebbe spinta un po’ più in là tra le cose della vita, ho frequentato un corso di fotografia. L’insegnante era Amy Arbus, seconda figlia di Diane, ancora teenager quando la madre - il 26 luglio 1971, a 48 anni - si tagliò i polsi e si lasciò scivolare vestita nella vasca da bagno. Sono arrivata alle immagini di Diane Arbus attraverso quelle, meno radicali, della sua secondogenita e nel tempo ho sviluppato un’attrazione tenace verso questa famiglia dolorosamente geniale. A New York, in questi mesi, una mostra e un libro raccontano i primi lavori di D.A. La biografia, scritta da Arthur Lubow, comincia con le parole: ““Non posso andare avanti così”, si disse Diane quando decise di abbandonare l’attività di fotografa di moda accanto al marito per cercare una strada sua dietro l’obiettivo e dentro il mondo. Quello che le stampe raccolte al Met mostrano è l’inizio dell’esplorazione: fuori dai canoni di una ricca famiglia borghese e dalle inquadrature imparate in studio con Allan. Amy Arbus, nelle nostre afose settimane trascorse in giro a scattare, sembrava custodire lo stesso richiamo a prendersi dei rischi. Non curarti della tecnica, non adesso, il punto è se sai esprimere o no una visione. Se ce l’hai, una visione. Vent’anni dopo, quell’unica idea sembra essere sopravvissuta alla distrazione e alla pigrizia delle foto da smartphone: esercitarsi a guardare, cercare lo sguardo delle persone nei loro territori, immaginando vite straniere anche se sei sempre sullo stesso tram e nella stessa città.