Corriere della Sera - Io Donna

JESSICA BENNETT

Il New York Times, in prima linea nella lotta alla disparità, assume una gender editor. Il suo compito? FILTRARE LE NOTIZIE DAL MONDO attraverso lo sguardo di una donna

- di VivianaMaz­za

Jessica Bennett è la prima gender editor del New York Times. «Hocomincia­toil30 ottobre, duesettima­nedopo lo scandalo Harvey Weinstein, e molti hanno pensato che lamia assunzione fosse una risposta a quello, ma in realtà ne parlavamo da un anno» racconta a Io Donna. In questi mesi ha lanciato progetti comela newsl et terThe#M eT o o Mo ment,ap erta alle storie dei lettori, e incontri live, oltre a scrivere e fare la editor .« Probabilme­nte troppe cose per far- le tutte bene, ma questo lavoro finora non esisteva: èunwork in progress ». Si occupa di femminismo­edi donne in politica e in economia, ma usa “la lente del genere” anche per indagare cosa significa essere uomini, per parlare di razza e classe, scienze, sporte salute .« Non vogliamo ricreare le pagine femminili di cinquant’anni fa, quando i contenuti cosiddetti“perle donne” erano circoscrit­ti a una sezione del giornale. Devono esserci in ogni sezione e in ogni medium. Il mondo è stato a lungo raccontato con sguardomas­chile perché gli uomini hanno gestito i governi e ime dia:f il trareilg rande giornalis model Time sat traverso uno

sguardo femminile serve a bilanciare questa disparità. Epuò essere unmodello per tutti imedia». Bennett si occupa da tempo di questioni di genere e di sessualità, ha lavorato perNewswee­k e Time, per la fondazione­LeanIn(facciamoci­avanti) diSherylSa­ndberg, e ha scritto il saggio Feminist FightClub. «Arrivareal­NewYorkTim­esdurantei­lcasoWeins­teinè stato incoraggia­nte» spiega «perchéhovi­sto il forteimpeg­no istituzion­ale nel seguire questo tipo di storie». Lo scandalo ha scatenato un movimento globale: «Mi aspettavou­na reazione forte, manonfino a questopunt­o. Siamorimas­ti tutti unpo’ sorpresidi­quantoabus­i e molestie siano diffusi in settori diversi e in tutte le nazioni, e di quanta rabbia e bisognodip­arlarne abbiano le donne. Ho pensato a lungo a cosa ha portato alla nascita del movimento #MeToo. Innanzitut­to, la storia di Weinstein, che riguarda un uomo famoso e donne ancor più famose, hamostrato che dal problema nonsfuggen­eanche chi è ricca e privilegia­ta. Poi i socialmedi­a hanno avuto un ruolo enorme nel diffondere ilmessaggi­o, è stato incredibil­e vedere l’hashtag# MeToo tradotto in tante lingue, incluso l’italiano. Epenso abbia contribuit­o, qui inAmerica, la colleraver­sounpresid­enteaccusa­todiaggres­sionisessu­ali senza ripercussi­oni».

Per Bennett è un “risveglio culturale” dal quale non si torna indietro. «Anche l’opinione pubblica non sembra essersenes­tancata, equestoèmo­ltoraro. Ilpuntoè: qual è il prossimopa­sso? Continuare a denunciare casoper caso non cambia il sistema. Ora dobbiamo discutere delle soluzioni struttural­i, di cosa possono fare le organizzaz­ioni per prevenire questi comportame­nti, di comemodifi­care il sistema legale in modo che chi vuole giustizias­i possa rivolgere alla legge anziché aTwitter».E poi bisogna« distinguer­e tragli Harvey W einstein, stupra toriche dovrebbero finire in carcere, egli uomini che forse non hanno colto i segnali nel modo giusto ma non sono violentato­ri. Finora la punizione è statala stessa per tutti: perdereil lavoro».

Ci sono zone grigie che vedono al centro la questione, complessis­sima, del consenso, che non è semplice come dire sì o no. Spesso le donne dicono di sì anche se non vogliono. «Avevo 19 anni, lui una trentina, era il fratello maggiore di una compagna di classe dietro cui morivamo da ragazzine» ha scritto Bennett inunrecent­e articolo. «Erotornata a casa dall’università, luimi ha notata, ed è successo. A quel puntoero sicuradi nonvolerlo, ma inuna combinazio­ne di paura (di nonessere matura come lui credeva ), vergogna( per non averlo impedito) e senso di colpa( lo avrei ferito ?), ho lasciato che succedesse ». Quest’esperienza del“punto di non ritorno”,ri battezzata“CatPers on Sex”d alno medi un popolariss­imo racconto uscito sulla rivista New York er,è comune a molte donne.

Èimpossibi­le parlare di consenso senza parlaredel sessismora­dicato inognunodi­noi, uomini edonne» diceBennet­t. «Alledonne si insegna che devono essere schive, che se dicono subito di sì vengono considerat­e facili, e se dicono no in certe situazioni si rischia che gli uomini reagiscano male. Mentre loro devono essere carine con tutti. Sono stereotipi­che pesano. D’ altro canto gli uomini ritengono di dover insistere perché le donne dicono no anche quando vogliono dire sì». ll problema è anche la resistenza, in America, a parlare di sesso: «Nessuno ne discute onestament­e, a scuola non si fa educazione sessuale». Affrontare davvero questi temi fa la differenza .« Io ho 36 anni, lamia assistente 23, alla New York Un iv ersity ha frequentat­o corsi obbligator­i sul consenso e il su olivello di comprensio­ne è assai superiore a quello del lamia generazion­e. All’inizioquan­do furono introdotti vennero sbeffeggia­ti da tutti. Mai o credo che aiutino perché così impari adire apertament­e quel che vuoi o non vuoi. Potrebbe essere un po’ più imbarazzan­te e meno sexy del sesso come appare nei film, maa lungo andare èmeglio».

“ll problema è anche la resistenza, in America, a parlare di sesso: non se ne discute onestament­e, a scuola non si fa educazione sessuale”

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L’editoriali­sta del New York Times Jessica Bennett, 36 anni: è la prima, storica gender editor del quotidiano.
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Jessica Bennett a NewYork alla presentazi­one del suo libro “Feminist Fight Club”.

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