Corriere della Sera - Io Donna
In Italia vivono 35mila immigrate che hanno subito la mutilazione dei genitali. Una pratica illegale, dolorosa e nociva, denunciata da Ledi Meingati, attivista Masai. I ginecologi puntano sulla chirurgia plastica. E cercano soluzioni. Come fanno Weworld e
Io Donna,
Pdall’altra parte. La sola parola “infibulazione” rimanda a mondi talmente lontani dalla nostra cultura che il primo pensiero è fuggire perfino dall’idea che possa esistere ancora una pratica così feroce e violenta. Eppure, le mutilazioni genitali femminili ci camminano letteralmente accanto: con le migrazioni e la globalizzazione, anche in Italia vivono donne che sono state sottoposte a tagli rituali dei genitali, da ragazzine o perfino da bambine: le stime parlano di almeno 35mila nel nostro Paese, nel mondo i numeri sono da capogiro. I più aggiornati li presenterà Weworld Onlus alla Camera dei Deputati il prossi
Può venire l’istinto di voltarsi
mo 21 novembre con il rapporto Making the Connection, in occasione della prossima Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza sulle Donne del 25 novembre (vedi riquadro a pag. 82): ogni anno tre milioni di bambine sotto i 15 anni vengono mutilate, oltre 200 milioni sono le vittime in circa 30 Paesi prevalentemente africani ma non solo, visto che accade anche in alcune aree dell’asia e del Sudamerica.
In Italia non si può: siamo uno dei primi Paesi europei ad aver reso illegali le mutilazioni genitali femminili con la legge 7/2006. Le ragazzine che fanno parte di famiglie ancorate a questa crudele tra
dizione però vengono spesso spedite dai parenti nella patria d’origine, approfittando delle vacanze dalla scuola: subiscono la mutilazione, poi tornano. «Sospetto però che in alcuni casi, per esempio fra le nigeriane, vengano praticati riti meno invasivi anche qua» dice Lucrezia Catania, ginecologa che nel 2003 assieme al marito somalo Omar Abdulcadir ha aperto a Firenze uno dei primi centri per la prevenzione e la cura delle complicanze legate alle mutilazioni genitali.
Su cui, spiega, si sprecano i falsi miti: «Innanzitutto la pratica non ha nulla a che vedere con la religione, è legata alle tradizioni: riguarda musulmane, ebree, cristiane, animiste. E non tutte le mutilazioni sono uguali: si va dall’asportazione del prepuzio a quella della clitoride, fino al taglio delle piccole e delle grandi labbra. L’infibulazione, nella quale viene cucito quel che resta dopo il taglio, riguarda il 12-15 per cento delle donne ed è quella che provoca le conseguenze più gravi, perché poi sia l’urina sia il sangue mestruale escono goccia a goccia, il primo rapporto sessuale in cui deve essere rotta la cicatrice è terribile, il parto dolorosissimo. Ci sono i rischi immediati, dalle infezioni alla ritenzione urinaria acuta, più o meno probabili a seconda delle condizioni in cui si viene mutilate; e quelli nella donna adulta, che vanno dalle complicanze al parto ai problemi sessuali. Tante pensano sia normale soffrire atrocemente ai rapporti o durante il ciclo».
Per aiutarle è possibile fare la deinfibulazione o la ricostruzione della clitoride, interventi semplici che però devono essere spiegati, compresi e accettati: per quanto possa sembrare pazzesco in alcune culture le donne si sentono più pulite, femminili e sexy se sono mutilate e alcune possono non aver vissuto come un trauma l’evento, perché è inserito in una tradizione di cui fanno (e vogliono fare) parte. «Serve far capire loro che la cura è una promozione del
benessere e della salute, non vanno stigmatizzate ma devono essere informate con delicatezza e rispettando il loro vissuto. Oltre che aiutate a capire che, per esempio, possono ancora avere una risposta sessuale perché la parte di clitoride rimossa è comunque piccola rispetto alla totalità di questo organo, così poco conosciuto dagli stessi medici» dice Catania.
Alla ricerca di un compromesso
I ginecologi italiani stanno già promuovendo iniziative di formazione, perché come sottolinea Elsa Viora, presidente dell’associazione dei Ginecologi Ostetrici Ospedalieri Italiani: «Il numero di donne mutilate è in crescita anche in Italia, con l’aumento delle migranti. E i ginecologi sono in prima linea, perché sono loro a visitarle e poterle aiutare quando soffrono per le complicanze, per esempio al momento del parto». La questione sta diventando così rilevante per i medici che se ne è parlato anche all’ultimo congresso della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, per fare il punto sulle tecniche di chirurgia plastica pensate per le donne vittime di mutilazioni; il 25 novembre, inoltre, partirà da Napoli un summit itinerante promosso dalla Società Italiana di Chirurgia Plastica, Ricostruttiva ed Estetica per diffondere le ultime novità chirurgiche in materia. «La chirurgia plastica
I testimonial della campagna #unrossoallaviolenza: qui a fianco, l’ex calciatore e ora allenatore Marco Materazzi; in alto, le attrici Benedetta Porcaroli (a sinistra) e Camilla Filippi. rigenerativa ha fatto enormi progressi, ora possiamo per esempio ricostruire la clitoride a partire dal grasso e dalle cellule staminali della paziente» interviene Stefania de Fazio, chirurgo plastico promotrice del summit assieme al presidente della Società Italiana di Chirurgia Plastica Francesco D’andrea. «Il nostro sogno è disseminare le conoscenze e realizzare negli ospedali unità per la gestione delle mutilazioni genitali femminili che si avvalgano di chirurghi, ginecologi, psicologi, fisioterapisti della riabilitazione del pavimento pelvico».
La soluzione? Cancellare per sempre queste pratiche, ma sono così intimamente legate a molte culture che non è facile. Anche per questo sono stati proposti riti “alternativi”, meno cruenti, come il pricking (una minima incisione che non dà conseguenze) o la puntura simbolica. «L’obiettivo è che le donne siano lasciate intatte, ma un compromesso potrebbe essere ragionevole, mentre cerchiamo di fare informazione per spezzare queste tradizioni pericolose per le donne» conclude Catania.