Corriere della Sera - Io Donna
Sandrine Bonnaire, contro ogni convenzione
L’attrice francese interlocutrice di Agnès Varda nel suo ultimo film, presentato a Filmmaker
Senza tetto né legge. Sotto, Varda par Agnès.
che aprono squarci su mondi generalmente preclusi. Cosa c’è dietro un film? Quali fantasmi abitano l’universo di un autore? La parola di Agnès Varda in Varda par Agnès, pellicola proiettata a Filmmaker (fino al 24 novembre), è parola evocativa, «una sorta di masterclass permanente» sintetizza Sandrine Bonnaire che, della cinecriture, la cine-scrittura di Varda, è stata soggetto, predicato e complemento. Insieme, Bonnaire e l’unica donna che fece parte del gruppo dei “giovani turchi” della Nouvelle Vague - Godard, Truffaut, Rohmer, Chabrol, Jacques Demy (suo marito) - hanno fatto un film indimenticabile per più di una generazione, Senza tetto né legge (1985), “on the road” di una giovane donna refrattaria a ogni convenzione. In Varda par Agnès, attrice e regista si ritrovano. E ricordano. Varda è scomparsa il marzo scorso, a 90 anni, poche settimane dopo la prima berlinese del film. Sandrine Bonnaire, come ha finito per farsi coinvolgere in
Agnès amava parlare del suo cinema, soprattutto ai giovani. Ha colto molte delle occasioni che le venivano offerte, dalla cineteche, dalle università, finché per lei spostarsi ha cominciato a essere faticoso. Allora mi ha chiesto di raggiungerla in campagna, ha piazzato due macchine da presa e abbiamo cominciato a parlare di cinema.
Ci sono conversazioni Varda par Agnès?
“Agnès Varda avrebbe potuto lasciarci coi nostri dubbi, liberi di interpretare il suo cinema a piacimento. Ma come ultimo atto ha voluto fornirci le chiavi al suo mondo”
Tra i ricordi c’è anche quello del duro trattamento che le riservò durante le riprese di
Voleva fare ammenda?
Avevo solo 17 anni e quando, a riprova delle condizioni in cui lavoravamo, andai a mostrarle le vesciche che mi ero procurata alle mani scavando, lei si dimostrò indifferente. Lì per lì mi parve una prova di insensibilità. Ora la vedo molto diversamente.
Lei ha cominciato a lavorare a 15 anni, per caso più che per vocazione, in di Maurice Pialat. Ha fatto molti film memoriabili. Finché essere attrice non le è bastato più. L’esordio alla regia per raccontare in un documentario, la storia di sua sorella autistica, era un bisogno personale o una necessità per continuare a esistere?
Dopo tanti anni di lavoro come attrice volevo testimoniare una presa in carico. E il documentario è stato un tale successo che mi sono chiesta se avevo altre cose da dire. La risposta è stata che forse ne avevo. Ho capito che forse non volevo più essere solo al servizio di una visione altrui.
Viene da una famiglia numerosa, sesta di 11 fratelli. Qual è in lei la forza più potente, le radici o il percorso che ha fatto nella famiglia del cinema?
Mescolo le due cose. Una metà di me è stata formata dal cinema che è stata la mia scuola, ma la mia famiglia è ancora parte della mia vita. Ho passato 16 anni con loro e 36 con il cinema.
Sua figlia maggiore, Jeanne (il padre è l’attore americano William Hurt), ha 25 anni e state già lavorando insieme. La spaventa che voglia seguire la sua strada?
Jeanne ha desiderio di cinema, ha voglia di dirigere. Una volta toccate con mano le potenzialità che questo mondo offre credo sia difficile resistere. E io la incoraggio in ogni modo.
Che ricordi ha dell’italia e di Marcello Mastroianni con cui lavorò in di Francesca Archibugi?
I più grandi sono i più semplici. E Marcello è una delle persone più semplici che abbia mai incontrato. Quando vedo attori che mancano di umiltà lo penso. Conoscerlo è stato un vero privilegio.
legge. Sabine, amori Verso sera Senza tetto né Ai nostri Elle s’appelle