Corriere della Sera - Io Donna
LA “TOSCA” DI GIACOMO PUCCINI IN BREVE
interna”» osserva Noemi, che riesce, con super-equilibrismi, a “incastrare” questo impegno con gli studi al liceo linguistico, quelli di pianoforte, un’ora di nuoto e due di arti marziali per non “ingobbirmi troppo”. «Il problema maggiore è conciliare i miei rari momenti liberi con quelli degli amici...».
«Il canto è una sicurezza: l’adolescenza è un periodo di grandi cambiamenti (uso una frase fatta, per quanto non mi piaccia), ma so che su questo posso contare» confida Francesca. «Tempo per me? Considerando che frequento il classico al Parini, non ne resta... Praticavo un sacco di sport e ho smesso, anche perché sono una persona competitiva e mi dava fastidio non potermi esprimere ai massimi livelli».
Un lavoro da camaleonti
L’opera che inaugura il XX secolo (debuttò a Roma il 14 gennaio 1900) è stata musicata da Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, tratto da che Victorien Sardou scrisse nel 1887 per Sarah Bernhardt. In tre atti, viene raccontata - nella Roma papalina del 1800 - la storia d’amore tra la cantante Floria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi, ostacolata - fino al tragico epilogo - dal capo della polizia, Scarpia. Le scene di questa edizione (Sant’andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’angelo) sono di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi.
La “ricompensa” però è preziosa, e non solo sul piano artistico. «Si diventa una persona unica, come se un abbraccio invisibile ci accogliesse tutti» osserva Gianluigi. «Siamo individui e ognuno nel coro costruisce se stesso: a volte c’è competitività ed è normale e bello, perché forma i nostri caratteri» è invece il parere di Noemi. «Io, che in genere preferisco lavorare da sola, ho sviluppato migliori capacità di relazionarmi nel gruppo» nota Francesca.
Tutti e tre sperano, almeno come step iniziale, di passare fra “i grandi”. Pur coscienti che si tratti di una prestazione dall’importanza spesso misconosciuta. «Ci sono opere in cui il coro primeggia con potenza - come non ricordare il Va, pensiero del Nabucco? - e parecchie in cui si fatica assai di più, si affrontano rischi e il pubblico quasi non se ne accorge... Così come pochi sono consapevoli della preparazione che c’è dietro, compreso spesso il passaggio con un coach, visto che cantiamo in qualsiasi lingua: prima i gruppi singoli (soprano, mezzosoprano e contralti; tenori, baritoni e bassi), poi si assemblano tutte le voci femminili e tutte quelle maschili, infine si riuniscono donne e uomini. La nostra versione a quel punto viene mostrata (e discussa) con il direttore d’orchestra. Una volta pronta, c’è la prova sul palco coi registi che dirigono come fossero attori... Mentre il solista si specializza in un certo repertorio, il corista deve essere un camaleonte».
Il trionfo dell’empatia
Un’ode al “corista ignoto” arriva pure da Livermore. «Sono artisti sommi non soltanto perché in grado di incarnare il body language delle varie epoche storiche e dei vari ceti, ma soprattutto perché capaci di cacciare l’ego a vantaggio della creazione di un’entità collettiva. Un coro rappresenta una lezione di democrazia per la società. È spesso protagonista dell’azione, certo, ma in gran parte ha la funzione di amplificare con le reazioni i sentimenti dei solisti: deve avere la sensibilità di accogliere la musica oppure di essere presente in scena, attento, ma nel silenzio. Un trionfo
“Cantando siamo una persona unica, come se un abbraccio invisibile ci accogliesse tutti”
dell’empatia, ecco cosa è il coro».
Diciamoci la verità, Davide: perché i giovani del 2019 dovrebbero essere attratti da melodrammi otto-novecenteschi in costume? «Lo ripeto spesso, scherzando: c’è più sesso, droga e rock’n’roll nell’opera che in qualsiasi altra forma di spettacolo. E c’è la bellezza, che aiuta a scoprirci persone migliori. Se posso comprendere la bellezza messa in scena vuol dire che c’è bellezza pure in me, che posso elevarmi al di sopra della quotidianità. L’opera ti devasta dalla magnificenza, essendo la summa delle arti: quelle visive e plastiche, la musica, il canto, la danza, la recitazione... È un miracolo, ed è la sintesi di quanto possiamo essere noi italiani, se solo lo vogliamo: produttori di bellezza».
Siamo vili o “sardine”?
Tosca, in particolare, che insegnamenti contiene per l’oggi? «Può insegnarci tutto, benché Puccini - vivendo in un diverso periodo storico - non avesse lo stesso afflato di Verdi, che narrava vicende archetipiche per parlare alla contemporaneità e alimentarne il desiderio di libertà. Assistendo all’orrore messo in atto da Scarpia, evocato in maniera così potente, siamo poi chiamati a interrogarci, a scegliere da che parte stare nella vita: questa è educazione. Ma ogni elemento è attuale, dal ricatto sessuale alla capacità (rarissima) di morire per un ideale e a quella (rarissimissima) di morire per un amico, fino alla fedeltà in amore. Io sono Scarpia o sono Cavaradossi? O sono una vittima che diventa carnefice come Tosca? Sono un vile che non prende posizione o sono una “sardina”?».