Corriere della Sera - Io Donna
Lavinia Biagiotti e la “femminilità rispettosa”
da Ngozi Adichie, We should all be feminists. Avrebbe potuto accontentarsi di disegnare un fiore o scrivere Viva Dior. «Ma ho cinquantun anni e ho ripensato a tutte le varie fasi della mia vita in una società che mi ha visto nel ruolo di donna, figlia, madre. E ho capito che, proprio come designer e come donna, il mio impegno nella moda non può ridursi a inventare un vestito incredibile. Perché penso di avere la responsabilità di interpretare un’epoca che sta cambiando».
Femminismo? No, sorellanza
Era commossa, era eccitata, era ansiosa Lavinia Biagiotti, la sera nella quale Rai 3 ha trasmesso il documentario
dedicato alla madre Laura Biagiotti. Racconto tenero e brillante diretto da Maria Tilli sulla donna che intuì il potenziale del nascente prêt-à-porter di lusso, ma lo declinò in abiti facili da indossare per chi non vuole rinunciare a essere se stessa. È un concetto di femminilità rispettosa, che definisce lo stile e la storia di una famiglia, da nonna Adelia, proprietaria di un atelier di buona fama nella Roma degli anni Sessanta alla nipote
Più che di femminismo, si può parlare di sisterhood, sorellanza, un metodo di pensiero e di lavoro che ha caratterizzato anche le Fendi
(dove Chiuri ha lavorato agli esordi). Una società familiare, composta da cinque sorelle, ognuna con i propri interessi, i propri figli, i propri impegni che, nel pieno rispetto delle proprie attitudini e capacità, di una boutique romana specializzata in borse hanno fatto un marchio internazionale, entrato nell’orbita di LVMH e diretto oggi con passione da Silvia Venturini Fendi. Come Lavinia Biagiotti,
che rappresenta una storia tutta al femminile di costruzione di uno stile e di un successo (vedi riquadro in alto). E Veronica Etro, direttore creativo della donna mentre il fratello Kean lo è della moda uomo, delineano la contemporaneità di uno dei più sofisticati marchi di tessuti italiani (vedi a pag 76).
Stella Mccartney, eco-stilista famosa e amatissima, parla di un “tessuto connettivo” che unisce valori come etica e sostenibilità, fatti propri dal pensiero femminile sulla moda. Sono le generazioni di quarantenni, dalle gemelle Olsen con la loro linea The Row e Victoria Beckham a ripensare le immagini e l’industria del fashion. Elisabetta Franchi, stilista e capo azienda di una società fondata nel 1998 partendo da una bancarella di biancheria al mercato,
Le sorelle Fendi. Da sinistra: Anna, Franca, Paola, Carla e Alda. A destra, Donatella Versace.
Lavinia orgogliosa di questo tragitto di emancipazione femminile. «Ho imparato affiancando mia madre subito dopo la scomparsa di mio papà, Gianni Cigna. Ho lasciato la facoltà di medicina e proseguito sulla strada di famiglia sapendo, da figlia del carpe diem, che è il senso del tempo il grande alleato delle donne, esaltando la nostra capacità di tendere un filo tra passato, presente e futuro. Forse anche per questo una delle nostre caratteristiche è sempre stata la maglieria, tanto che mia madre era soprannominata dal
“Regina del cashmere”».
e che oggi è impegnata nel tragitto verso la quotazione in Borsa, in un’intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato il suo essere donna in un ambiente ancora maschile. «Siamo ancora poche dietro la scrivania di chi comanda. Il perché non lo so. Sicuramente c’è una società vecchia che dobbiamo lasciarci alle spalle, ma penso che ne stiamo venendo fuori».
La capacità di pensare etico
Presidente e Ceo di Biagiotti Group dopo la scomparsa della madre nel 2017, Lavinia racconta: «Ho capito, avendo visto lavorare mia madre, qual era il suo modello di comportamento: strutture piccole, ben organizzate e specializzate. Oltre alla curiosità di scoprire il mondo: è stata la prima stilista a sfilare a Pechino il 25 aprile 1988, invitata addirittura dal Governo cinese»
Niente lo dimostra più dell’affascinante storia di Stella Jean, che mentre studiava scienze politiche alla Sapienza di Roma e collaborava come modella con Egon von Fürstenberg, ha capito che i vestiti avrebbe preferito farli piuttosto che indossarli. E con intelligenza, è riuscita a fondere la sua identità creola con quel pensiero classico della bellezza respirato a Roma. Da questo incontro è nato un concetto originale di multiculturalità declinata nella moda che caratterizza il suo lavoro. «Sono convinta che la moda abbia un valore politico», spiega la stilista che dà vita alle sue collezioni come se fossero un racconto, partendo dalla struttura narrativa. «Sono appena rientrata dai territori ai confini dell’afghanistan dove sono riuscita a lavorare grazie alle Nazioni Unite e al loro programma di moda etica. Per me è diventato un processo di crossover culturali, che mi consente di avvicinare donne di etnie diverse. Le nuove generazioni sono affascinate dal modo di vestire occidentale, senza pensare che sono le loro arti e tradizioni artigianali la chiave di volta di una sintesi identitaria». E l’alta sartorialità italiana può trasformare in eleganza consapevole questo punto di equilibrio e sintesi di estetiche contrapposte, fornendo al tempo stesso un’opportunità di lavoro dignitoso. Come diceva Maria Luisa Frisa, quella sintesi tutta femminile tra praticità e progetto.