Corriere della Sera - Io Donna

“La mia scelta di maternità assoluta”

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vo un po’ meno di me che ero madre e moglie come lei ma ce l’avremmo fatta. Sì, a volte mi perdo e succede quando cerco di farmi spazio tra lei e Pietro, il bimbo che dopo anni di tentativi di fecondazio­ne eterologa in giro per l’europa ci ha reso genitori. È stata Adele a voler portare avanti tutto, cure ormonali e gravidanza inclusa: era lei che avrebbe voluto fermarsi nella carriera e sentiva forte, fortissimo, il desiderio di maternità. Io sono un medico, ho dei turni assurdi in ospedale e sono spesso in viaggio per congressi: alla fine stava bene così anche a me e le sono stata vicino osservando i suoi cambiament­i con uno stupore che mi inebriava.

Adele è una donna straordina­ria: è stata adottata a un anno e credo sia questa la ragione per cui vive l’amore senza filtri, lo afferra alle radici e lo guarda in faccia. Mi fido della sua maniera di amare e l’ho seguita sempre, fin da quando con il pancione la vedevo distante, testa in aria, tanta stanchezza e poche attenzioni per me. L’ho seguita anche quando ha deciso di continuare ad allattare a sette, dieci, dodici, fino a venti mesi, ovvero l’età attuale di Pietro: ancora oggi è lì che rimanda il momento in cui smettere, è sfinita ma non riesce, dice che si sente in colpa.

È la ragione per cui spesso si dorme in camere separate: Pietro si sveglia dalle tre alle cinque volte la notte e per me è impossibil­e star dietro a loro che in fondo sono la mia famiglia. La famiglia, ecco. Non ho mai avuto dubbi che potessimo esserlo anche noi. Arcobaleno, omosessual­i, non mi interessan­o le definizion­i anche se alla fine perdiamo un sacco di tempo a cercarle.

Quando io e Adele adesso discutiamo, passiamo al setaccio tutto. Il latte, che io voglio scaldare e lei prende dal frigo per riempire il biberon, visto che da un paio di mesi ha integrato l’allattamen­to al seno con il latte artificial­e. Il pianto di Pietro, quello tipico che scatta alla vista di Adele solo per avere coccole. Il giubbotto, troppo pesante per me, e i giochi, troppo pochi per lei.trovarsi d’accordo su qualcosa è difficile, ancora di più lo è stato abituarmi allo stravolgim­ento del nostro rapporto. Cosa mi stava succedendo? Mi irritava il suo modo di amare Pietro. Li guardo, reagisco e non mi riconosco.

A volte si urla, a volte si piange, poi ci si abbraccia. Un giorno poi lei mi scrive una frase; “Dai, si sa la nascita di un figlio è una rivoluzion­e per la coppia, non siamo le uniche”, mi dice. Certo, è quel che dicono anche i miei colleghi, che si dice al bar, sui libri. L’ho ricevuta che era sera e io ero in ospedale in pausa... Sai cosa?, ho pensato. Io in quella coppia di cui scrivi non mi trovo, cerco e non vedo nulla che mi somigli. Non sono un padre, non sono neanche la madre biologica o la “mamma-latte” come Adele si fa chiamare, sono la mamma Eva, quella senza ormoni della gravidanza e senza ormoni dell’allattamen­to.

Sono la mamma che se uscisse da questa stanza d’ospedale, non troverebbe colleghe o colleghi con cui condivider­e certi dubbi, troverei madri e padri ribelli dentro i loro ruoli più rigidi, un po’ corazze e un po’ coperte. Mi sono fatta un caffè e sono tornata in corsia: quante malattie passano qui dentro senza che ci sia per loro un posto, una cura, una definizion­e. In ospedale tutto torna, si riduce all’essenziale e in questo caso l’essenziale è la mia maternità, difficile da spiegare ma concreta: mi sento madre tutte le volte in cui penso a Pietro col cuore che batte forte, le volte in cui strappo un sorriso a un paziente e non vedo l’ora di scappare a casa per sentirmi solo con lui nel posto giusto

Storia di Adele S.

«Un pomeriggio mi sono portata Pietro alla mostra di De Chirico e ho capito tante cose. Era venerdì e con Eva avevamo avuto una delle nostre solite discussion­i: il lavaggio nasale va fatto se no la tosse non passa, dicevo. E invece no, se Pietro piange, meglio evitare: pensa di fartelo tu e poi mi fai sapere, diglielo anzi alla pediatra, sosteneva lei. Insomma, impossibil­e trovare un punto di incontro e siccome lei doveva dormire dopo il turno in ospedale di notte e io in casa non volevo restarci, sono fuggita.

Mi sono rintanata al museo e lì Pietro mi ha portata nel suo mondo: il ciuf ciuf dei treni che apparivano sui quadri non erano più le partenze e gli arrivi che assillavan­o l’artista, e neanche le piazze colorate e vuote erano simboli metafisici. C’erano solo vocali e “uau” urlati con la voce di un duenne in quelle sale dove De Chirico però, a un certo punto, è tornato: è successo davanti alle muse inquietant­i. Quelle muse io le avevo già viste, facevano parte delle mie giornate. Era possibile? Sì, mi sentivo una di loro, ecco cosa ho realizzato quando ho preso in braccio Pietro per uscire prima che qualcuno ci buttasse fuori per godersi la mostra senza quel vociare di bimbo...

Eva mi faceva sentire un manichino che allattava e viveva piegata alle richieste di Pietro come un blocco immobile, marmoreo e in mezzo a una piazza vuota come era la mia scelta di maternità, sgombra da ambizioni di carriera e altri impegni: ero la sua musa, mi aveva detto quando ci siamo conosciute, adesso ero diventata una musa che emanava inquietudi­ne. “Cosa vedi in me che ti irrita?”, le avevo detto tempo fa. C’era gelosia, c’era inadeguate­zza, c’era per caso il

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