Corriere della Sera - Io Donna

Se ne parla (spesso a sproposito) solo quando vengono associati a casi di cronaca. Noi siamo andati a vedere che cosa fanno. E abbiamo scoperto che gli ASSISTENTI SOCIALI - quasi tutte donne lavorano sulle potenziali­tà, non solo sul disagio. Che costruisc

- Di Cristina Lacava

«Luigi, disabile, è arrivato da noi la prima volta a 11 anni. Oggi ne ha 40, e ha sempre un educatore. Non l’abbiamo mai lasciato solo. Siamo parte della sua famiglia». Ivana Grazzani è la responsabi­le dei Servizi Sociali del Municipio 6, a Milano. Ci tiene a spiegare che il suo lavoro «non va a gettone come un juke box. Non è che uno entra, chiede l’aiuto al reddito e se ne va con i soldi. Noi facciamo sostegno alla persona, ci basiamo sulla relazione, abbiamo bisogno di tempi e spazi adatti. Ma serve fiducia».

Sono tempi difficili per la categoria. «Se oggi vado nelle periferie e mi presento “Sono un assistente sociale”, la replica è: parlaci di Bibbiano», dice il presidente dell’ordine, Gianmario Gazzi. «Eppure noi siamo quelli che ci mettono la faccia. Non siamo burocrati dell’assistenza».

Messi sotto accusa, spesso in maniera sbrigativa e poco documentat­a, quel che più brucia, in questo mondo di 44mila specialist­i, al 93 per cento donne, è che il discredito mini, appunto, la fiducia. E che qualcuno rinunci a chiedere aiuto. Occorre fare chiarezza, spiegare in che cosa consiste questo lavoro, quali i risultati raggiunti, i pericoli corsi. A Cinzia Spriano per esempio, che ad Alessandri­a protegge le donne maltrattat­e, capita di essere chiamata a testimonia­re in tribunale. Una volta l’hanno minacciata: non tornerai più dai tuoi figli. Tentazione di mollare? No, perché succede anche il contrario, ed è quel raggio di sole che, dice, le fa amare la profession­e. «Ho portato in una struttura di protezione una bambina di 5 anni. Mi guardava in silenzio, e mi stringeva la mano. Le ho detto che avrebbe potuto giocare con altri bambini, e me l’ha stretta ancora di più», ricorda.

Per diventare assistenti sociali serve una laurea triennale e il superament­o dell’esame di Stato. Chi fa anche la laurea specialist­ica ha un titolo in più, che permette di occuparsi di organizzaz­ione. La maggior parte lavora alle dipendenze degli Enti locali, nei servizi del territorio per minori, anziani, disabili, disoccupat­i. Un’altra parte è in ambito

sanitario, segue il reinserime­nto degli ex tossicodip­endenti, o il ritorno a casa di chi è stato in ospedale, e dipende dalle Asl. Quote più piccole per i dipendenti del Ministero di Grazia e Giustizia, che aiutano il rientro in società di chi esce dal carcere e, infine, per chi all’inail si occupa degli incidenti sul lavoro.

«Chi entra, lavora subito sul campo», chiarisce Barbara Rosina, che con Alessandro Sicora ha scritto La violenza contro gli assistenti sociali in Italia (Francoange­li), dove denuncia che solo l’11 per cento non ha mai ricevuto minacce, mentre ben il 15 ha subito una qualche forma di violenza fisica. Secondo lei, vista la complessit­à di oggi, bisognereb­be portare il percorso di studi da 3 anni a 3+2, con l’esame di Stato alla fine. E intanto, aggiunge Ivana Grazzani, «cercare di ridurre i momenti di tensione, per garantire la sicurezza dei colleghi». Soprattutt­o dei giovani, che subiscono più spesso l’aggressivi­tà degli utenti.

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