Corriere della Sera - Io Donna

“Con mio marito, Paolo Virzì, abbiamo avuto un MOMENTO DIFFICILE, ma è passato in un attimo”

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IImmaginat­e Micaela Ramazzotti allo specchio, che scava nei ricordi, cerca lo sguardo che si può avere a vent’anni. «Ho dovuto togliere dagli occhi il bagaglio di maturità e di esperienze, vedere quanto sono cresciuta e dimenticar­mene» racconta. Il cinema, per chi lo fa, può essere una macchina del tempo. Quarantune­nne, Micaela, ne Gli anni più belli di Gabriele Muccino, nelle sale dal 13 febbraio, interpreta Gemma da quando è ventenne fin oltre i 50. In questa storia di amicizia e disillusio­ni fra quattro amici, è l’unica donna tra Pierfrance­sco Favino, Claudio Santamaria e Kim Rossi Stuart, che è un primo amore di quelli che fanno giri immensi e poi ritornano. Coi cambi d’età si era già cimentata ne La prima cosa bella, diretta dal marito Paolo Virzì, ma ora, al pari del suo personaggi­o, è stato come fare i conti con chi era e con chi è diventata. «La cosa più difficile non è stata ritrovare lo sguardo vivo dei vent’anni né quella fame di vita» dice «ma calarli in una ragazza di grande tristezza, un’orfana di padre che perde la madre di cancro, che non si vuole bene e non sa amare, che è sempre sconfortat­a». La Micaela ventenne, invece, che sguardo aveva?

Inesperto, però grintoso e curioso. Allora come oggi, penso che gli anni più belli sono quelli che verranno, perché più cresci, più hai conoscenza e cultura della vita e più cerchi di migliorare. Io ero piccina, ma volevo affermarmi, ero furba, intuitiva come un animale selvatico. A 13 anni, faceva già fotoromanz­i, a 20 era

Zora la vampira,

accanto a Carlo Verdone. Lui era il mio mito. Finalmente, nel quartiere, smisero di prendermi in giro. Non ero fra le più gettonate, ero timida, magrolina, tutta denti. E non mi vestivo bene, secondo me. Avevo pochi soldi, gli altri mi sembravano tutti più cool e non capivo che la nostra essenza viene non dal denaro, ma dalla personalit­à. Mi sentivo in cerca di un riscatto. Il quartiere è l’axa, a Roma. Com’era? Sta fra Palocco e Infernetto, nessuno lo conosce. Erano villette vicino al mare e nient’altro, il cinema era lontano, il teatro lontano. Era come stare in un’altra regione. Andavo al Liceo Artistico in centro e marinavo per sentirmi parte della mia vera città: Roma. Sono stata bocciata due volte, perché me ne andavo al Colosseo, ai musei, pensando che dalla periferia o vai via subito o non te ne vai più. Qual era il suo motore? La voglia d’indipenden­za. Venendo da una famiglia semplice, papà vigile urbano, mamma impiegata, volevo magari comprare cose. Cercavo una strada, non sapevo quale. Mandai una foto al giornalino Cioè. Fare i fotoromanz­i non mi piacque, ma era l’unico modo che avevo trovato. Che cosa non le piaceva? Mettermi in posa non fa per me: io amo il movimento, la tridimensi­onalità. Soffro, se non mi posso espri

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