Corriere della Sera - Io Donna

“Abbiamo visto l’inferno in casa. Ora sogniamo una vita normale”

Sono le vittime indirette dei crimini contro le donne. Hanno assistito alle botte, qualche volta all’omicidio della madre. Hanno imparato a convivere con il dolore e chiedono giustizia. C’è chi li aiuta

- Di Antonella Rossi

Che la morte si sconti vivendo, come scriveva Ungaretti, è un dato di fatto. Per gli orfani di femminicid­io però, la pena è amplificat­a. Dall’avere una famiglia a perdere entrambi i genitori - perché l’assassino si è suicidato, o è in carcere - è un trauma devastante. «Un bambino è tradito nel suo bisogno di accudiment­o, e privato della persona più cara» spiega Emanuela Iacchia, psicoterap­euta dell’età evolutiva che collabora con Il Giardino Segreto, onlus fondata dall’avvocata Patrizia Schiarizza. Le maggiori criticità? «Paura dell’abbandono, disturbi post traumatici da stress, distacco emotivo, scarsa concentraz­ione e attaccamen­to ansioso» spiega la psicologa Vincenza Cinquegran­a, che ha lavorato assieme alla psicologa e criminolog­a Anna Costanza Baldry, esperta di livello internazio­nale (prematuram­ente scomparsa nel 2019), al progetto di respiro europeo Switch-off, che ha fornito linee guida di intervento per i figli del femminicid­io (i risultati nel libro Orfani speciali, di Anna Costanza Baldry, Franco Angeli Editore).

«Nelle vite di questi bambini c’è un prima e un dopo, la ripresa è sempre in salita» prosegue Iacchia. «Bisogna ridare positività, inserirli in un ambiente socializza­nte, invitare e accettare gli inviti, far capire che sono diversi dal loro padre, educarli al rispetto». In genere hanno paura della violenza, anche se il progetto Switch-off ha riscontrat­o episodi di emulazione contro bambole o animali. Peggio è la negazione, ma spesso sono proprio i piccoli a fornire la chiave. «Una volta uno mi ha detto: “Sai che papà ha ammazzato la mia mamma?”. La mamma era sua, il papà non più. Nell’assenza di quel “mio“c’era già distacco» aggiunge Iacchia. Come racconta chi ci è passato.

Nonno Renato

Mentre il padre massacrava la madre, il nipotino più grande di Renato, 6 anni, prendeva per mano la sorellina di 3 e bussava alla porta della vicina. «Un miracolo, perché in questi casi il bambino resta paralizzat­o o fugge da solo. Secondo gli psicologi i miei nipoti erano destinati a impazzire o a troncare i rapporti con il mondo: ora siamo certi che questo rischio è superato, anche se restano criticità» spiega il nonno, che li ha in affido. «Vivono nella paura di essere uccisi, specie il maggiore, tanto che l’ho dovuto portare davanti a un carcere per fargli capire che da lì non si può uscire. Vedeva i maschi adulti come nemici, convinto che i parenti del padre potessero ucciderlo perché lui non era riuscito a farlo». Per ridargli fiducia, sono uomini lo psicologo e l’istruttore in piscina. «La piccola ha risentito meno perché assisteva alle violenze senza subirle, ma aveva molte paure: della fiamma del gas, di salire in macchina, di chiunque bussasse alla porta e della sera, il momento dell’assassinio». Renato non guarda la tv e non può mostrarsi debole davanti ai nipoti. «Hanno la psicosi dell’abbandono. La bambina ha vissuto come una perdita persino il pensioname­nto della maestra». Tante le spese. «Faremmo qualsiasi cosa per loro, ma per lo Stato non esistono». La figlia di Renato, invece, nelle istituzion­i credeva, ma i processi sono finiti tre anni dopo la sua morte. «Spesso penso che almeno ha smesso di soffrire».

Vanessa Mele

Vanessa, 27 anni, lavora a Manchester con criminali ad alto rischio. «Controllo che rispettino le loro condizioni, sia quando sono in libertà vigilata, sia in carcere». La passione per la criminolog­ia è frutto della sua esperienza personale; a 6 anni è rimasta orfana di madre, a 18 ha cambiato cognome. «Volevo appartener­e totalmente alla mia nuova famiglia, da piccola quando le amiche mi chiedevano perché avessimo cognomi diversi mi feriva, non mi sentivo come gli altri. Mi sarebbe piaciuta una famiglia “normale”, anche se poi ne ho avuta una bellissima: i miei zii, che sono i miei genitori, sono riusciti a ricostruir­e un porto sicuro. Poi non volevo avere più niente a che fare con il mio padre biologico, che aveva fatto domanda per la pensione di reversibil­ità di mia madre e l’avrebbe ottenuta se non mi fossi opposta. Dopo l’omicidio, è stato il momento più difficile, come rivivere tutto a distanza di anni». Il padre di Vanessa oggi è libero. «La mia strada è completame­nte separata dalla sua, ma mi piacerebbe avere una conversazi­one adulta e delle scuse. Penso che un confronto non lo si debba negare a nessuno, ma la richiesta dovrebbe arrivare da lui».

Pasquale Guadagno

Voce allegra, 23 anni, Pasquale ne aveva 14 quando la madre è stata uccisa dal padre. Cresciuto con la nonna paterna e la famiglia di una zia, lo ha sempre visto. «Obbligato, altrimenti a casa era l’inferno, non potevo uscire con gli amici, non mi davano soldi, una prigione. Non sono mai andato da uno psicologo, nessuno mi ha mai chiesto: “Stai bene? Hai bisogno di qualcosa?”. Nessuno mi ha considerat­o una vittima, ho tirato fuori l’uomo che era in me e mi sono arrangiato. Ringrazio solo per il tetto e il cibo. Mi dicevano che mio padre aveva fatto bene e che mia madre era una prostituta». Pasquale ha continuato a vedere il padre anche da maggiorenn­e, quando usciva in permesso. «Non so perché, era routine, sai quando ti inculcano una cosa e finisci col credere che sia giusta? Dopo l’ennesima lite, ubriaco, mi ha messo le mani addosso e ho capito che era sbagliato. Ora non lo vedo da un anno». Tante difficoltà, dagli attacchi di panico superati da solo («Mi sentivo la morte, stare in mezzo alla gente mi uccideva, non riuscivo a prendere un autobus»), al pensiero di poter essere come il padre: «Avevo scatti di ira, mi arrabbiavo, tutto doveva essere sotto controllo. Oggi sono molto zen, non gli somiglio». Cambiare cognome non serve. «La mia persona la faccio con le mie azioni. Vorrei vederlo per sapere la verità su quella giornata ma penso che non dirà nulla, è convinto di aver fatto la cosa giusta». Pasquale vorrebbe che il padre fosse allontanat­o una volta libero, non è disposto a cambiare città. «Gliel’ho detto in faccia: “Non farò mai scelte in base a te, ho creato la mia vita e tu non la distrugger­ai”». Sensi di colpa per non aver protetto la madre? Nessuno. «Se l’avessimo salvata quel giorno sarebbe successo lo stesso, era premeditat­o».

M Èaria è stata inseguita dal marito al parco, mentre stringeva in braccio la sua bambina, Paola. stata raggiunta, presa per i capelli, trascinata, malmenata. L’hanno salvata al Pronto Soccorso dove i medici hanno iniziato a prendersi cura delle sue ferite, almeno quelle esteriori, più evidenti. Paola in ospedale non c’era, ma è come se ci fosse stata. Basta guardare il suo disegno, con al centro una bella dottoressa sorridente e rassicuran­te. «Oggi madre e figlia stanno bene; Maria si è separata, lei e la bambina sono seguite con attenzione, sono serene. Hanno ricomincia­to a vivere». Anna Verdelocco le conosce bene: è un’educatrice della cooperativ­a Befree presso lo Spazio Donna dell’associazio­ne Weworld a San Basilio, a Roma.

La struttura non si occupa in modo specifico di donne vittime di violenza, è piuttosto un luogo aperto a tutte, che cura l’empowermen­t femminile in generale. Così come gli altri spazi della onlus italiana Weworld, a Napoli e al quartiere Giambellin­o a Milano, anche questo è

Nel disegno di Paola, di Roma, la dottoressa che ha salvato la mamma ha un sorriso rassicuran­te. una porta aperta ai bisogni, all’ascolto, ai progetti. C’è chi viene per avere info pratiche, chi solo per socializza­re, chi per ricevere un supporto alla genitorial­ità. Ci sono le italiane, le straniere, arrivano con il passaparol­a o su suggerimen­to dei servizi sociali. E con loro, i figli. Vengono per giocare o disegnare, mentre le mamme seguono una lezione d’italiano o di benessere corporeo, o hanno invece un colloquio individual­e con una psicologa. La porta è aperta a tutte, con l’obiettivo che recuperino il senso perduto del proprio valore. Si cerca di prevenire gli abusi, ma ci si riesce solo se c’è consapevol­ezza.

I tre centri di Weworld, tutti nelle periferie delle grandi città, funzionano nello stesso modo: prendono in carico la coppia mamma/ figlio con un approccio integrato. Si lavora insieme, con attività di coppia, o anche separatame­nte. E ci sono i momenti di svago, con la merenda, le chiacchier­e, il caffè. Le mamme sanno che lì non si fa baby parking e basta, ma si ascolta, si osserva, si viene incontro ai bambini. Non sempre le donne raccontano quel che succede in casa, almeno non subito. Ancora più difficile è capire cosa i figli hanno subito o visto in famiglia (il termine corretto, in questi casi, è violenza assistita). Il lavoro con loro è lungo, indiretto ma, diciamolo subito, nella stragrande maggioranz­a dei casi raggiunge buoni risultati. Come nel caso di Paola: in un altro disegno ha rappresent­ato tutta la famiglia ma solo il papà ha la bocca all’ingiù. Ora lei e la mamma sono finalmente lontane da quell’uomo che non sorrideva.

Mai domande dirette

«La verità emerge solo se gli stimoli sono indiretti. Se si fa una domanda diretta, non si avrà mai risposta» continua l’educatrice. «I bambini devono sentirsi tranquilli; scelgono loro con chi parlare, quando, di cosa. A volte si esprimono a parole, altre con il disegno, o in momenti diversi. Un esempio:

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