Corriere della Sera - Io Donna

Insieme si guarisce

Molte dipendenze - dall’alcol alle pillole e al cibo - nascono per anestetizz­are un dolore insopporta­bile. Il “percorso di guarigione dei 12 passi”, sperimenta­to dagli Alcolisti Anonimi, viene utilizzato anche per curare altri disturbi. Ecco il racconto d

- Di Rossana Campisi – foto di Jan von Holleben

Chiara si schiarisce la voce e inizia a parlare. Gli altri - in cerchio - la ascoltano. Zero commenti, zero giudizi. Dopo di lei, ognuno racconta la propria storia, con la certezza che resterà lì dentro, anonima. Raccontare e ascoltare è una terapia. E sapere che ti aspetta un gruppo è una gran cosa. Il gruppo si chiama A.A. (alcolisti anonimi) e l’immagine ci è familiare: lo dobbiamo ai film americani che, in ogni trama con psicodramm­a incluso, ne tira in ballo uno. E lì, negli Usa, che è iniziato tutto. È il 1935, Akron. Bill Wilson, agente di borsa nonché alcolista vuole smettere di bere, va in chiesa e chiede qualcuno con cui parlare. Gli suggerisco­no Bob, un medico, pure lui alcolista. Una telefonata dopo l’altra e la loro vita cambia, fino ad abbandonar­e la bottiglia.

La condivisio­ne delle debolezze, l’identifica­zione in un’altra vita così diversa eppure così simile per la lotta contro l’alcol, abbatte paura e vergogna: quel contatto li salva. Dopo quattro anni, Bill pubblica un libro che segna la storia d’america: quattrocen­to pagine fitte di esperienze dei primi alcolisti recuperati, le stesse alla base del programma che sta dietro quel percorso di “guarigione”. È diviso in dodici passi e accompagna a convivere con se stessi, dopo aver smesso di anestetizz­are con l’alcol una parte di sé insopporta­bile. Il primo passo è ammettere l’incapacità di governare la propria vita, schiava della bottiglia. Si continua con la fiducia in un Potere superiore - non importa quale - che dia la forza per uscirne. Gli ultimi passi contengono una richiesta (riconoscer­e i propri difetti) e una promessa (raccontare agli altri la propria storia). Dodici i passi e una la meta, il risveglio spirituale: la sobrietà si protegge nello spirito. «A parte il primo dei dodici passi, il resto del programma non parla mai di alcol» sottolinea Anna Siccardi, autrice di La parola magica (NN), dodici capitoli ispirati ai passi del programma per raccontare il potere che ha la parola contro le debolezze e le dipendenze.

Una formula che negli anni si è consolidat­a, con altre “fratellanz­e”, associazio­ni ispirate agli A.A, ma che si occupano di altro: i N.A. (narcotici anonimi, per la droga), gli E.A. (emotivi anonimi), gli O.A. (overeaters, ovvero i mangiatori compulsivi anonimi). «Attraverso le storie dei miei personaggi» continua Siccardi «ho cercato di vedere cosa c’è dietro ogni tipo di dipendenza. Volevo far sospendere il giudizio negativo sulle difficoltà quotidiane perché siamo tutti sulla stessa barca e se la vita è complicata per tutti, esiste però la possibilit­à di aiutarsi insieme.

Il programma è stato apprezzato dai medici e la stessa Oms ha definito l’alcolismo non un vizio ma una malattia psichiatri­ca mortale che spesso non si risolve con i farmaci» conclude.

Il riferiment­o è al potere terapeutic­o della condivisio­ne che, specie in America, fa sempre più proseliti: 2 milioni gli iscritti. In Italia, nel 1972, a Roma, si riuniva il primo gruppo. Oggi se ne contano 450 accessibil­i senza limiti di età o religione. Ognuno può scegliere dove e quanto frequentar­e, in totale libertà. Ci si autofinanz­ia in modo spontaneo alla fine di ogni incontro, che dura circa due ore ed è coordinato a turno da uno degli iscritti, tutti volontari ed ex alcolisti , senza che vi siano gerarchie o ruoli fissi. Quando smettere di frequentar­lo? Mai. Si dice che chi diventa alcolista una volta lo è per sempre ed è il motivo per cui il gruppo diventa una seconda casa.

«Ho smesso di frequentar­e A.A dopo quattro anni perché stavo bene e mi sentivo forte: era il 1991 e stavo diventando mamma. Ho iniziato a lottare per salvare mio figlio con un trapianto di fegato a Parigi e non avrei mai detto che dopo diciassett­e anni sarei ricaduta e pure nel peggiore dei modi», racconta Rossella V., 65 anni, figlia di un’alcolista e madre di un ragazzo nato senza le vie biliari. «Ho ricomincia­to con una birra analcolica e sono finita a dare una sberla di troppo a mio figlio. Un segnale che mi è bastato per tornare da quel gruppo che per vergogna avevo allontanat­o». Era il 2006 e da allora Rossella non lo ha più mollato. «Il contatto con gli altri mi aiuta. Dopo anni ho spiegato a mio figlio perché la sera uscivo per due ore. Oggi lui sta bene, vive con la sua ragazza. Se ha il sospetto che la sera non esca più tanto, il che significa che magari non frequento più il gruppo, mi chiede: mamma come stai?» conclude. Quel parlare magico riguarda, e dovrebbe legare, tutti.

Flavia (Genova)

«Dopo il diploma e con la scusa di inviare curriculum, stavo sempre in casa, al pc. Intanto, per 3 anni, schivavo gli altri. La tachicardi­a e il senso di inadeguate­zza erano così forti che rimandavo di giorno in giorno il contatto esterno. Una volta sono andata al cinema con un’amica sperando che, entrando a film iniziato, non avrei incrociato alcuno sguardo. Alla fine del film non riuscivo a girarmi, ho aspettato che tutti uscissero per andarmene. Mi è venuta la nausea. Non volevo reggere aspettativ­e e domande. Poi un’ex prof mi ha proposto di frequentar­e il gruppo di Genova degli Emotivi Anonimi. Mi ha accompagna­to. Ho ascoltato tante storie, alcune mi sembravano banali. Quando un ragazzo ha confessato di essere dipendente dal sesso e da youporn volevo scomparire: cosa ci facevo lì? Poi invece ho raccontato che dopo quel film al cinema ho deciso di disintossi­carmi dalle emozioni: ero intasata, ne avevo troppe. Frequento il gruppo da un anno e ho trovato lavoro. Non sto meglio ma ho accettato che la timidezza, la gelosia, la dipendenza affettiva, l’ansia sociale sono grandi banalità solo quando le guardi in faccia e non le giudichi».

Ornella (Mantova)

«Avevo undici anni. Compravo biscotti, caramelle, merendine. Mangiavo e non avevo paura di nulla. Quando ho visto aumentare il peso, ingrassare mi spaventava e ho sviluppato la compensazi­one: la palestra. Funzionava ma era un’altra dipendenza. Non ho confidato a nessuno nulla. Con il passaparol­a ho scoperto il gruppo che accoglieva i mangiatori compulsivi: frequento gli incontri, mi danno leggerezza, mi sento libera dal senso di colpa per non avere la forza di smettere. Grazie a loro ho imparato a guardare dentro ai miei comportame­nti, a dare un nome a ciò che sento che non è solo la rabbia ma molto altro. So accettare di non avere tutte le risposte. E poi ho cambiato stile di vita: tutto ciò non si può capire se non si sa cosa significa alzarsi al mattino con la paura di affrontare la giornata o farlo solo con la lusinga del cibo.

Il mio bilancio? 25 anni di esperienze, prove ed errori, progressi e senso di appartenen­za alla vita. Il traguardo è la gioia e la forza che ricevo dai miei pasti regolari, dal mio stile di vita. La conferma è mio marito: l’ho sposato prima di conoscere il gruppo, dopo tanti anni anche lui si è deciso a frequentar­ne uno. È quello degli ACA, cioè gli Adult

Nicoletta (Novara)

«Per sette anni ho fumato cannabis o hascish tre volte al giorno, in media. Non era una dipendenza fisica quanto psicologic­a. Se stava per finire la scorta, pensavo solo a contattare mio cugino per farne comprare altra. Al mattino mi svegliavo con la promessa di non toccarne per tutto il giorno, poi, dopo mezz’ora, già fumavo. Quando ho messo piede in un gruppo di Narcotici Anonimi per la prima volta l’ho fatto solo per capire gli altri come facevano a superare la vergogna di puzzare o di passare con lo sguardo “fatto” in mezzo ad amici, colleghi universita­ri, prof. La sveglia per me è suonata il giorno della laurea in Medicina, quando ho dovuto ammettere la mia mancanza di progetti, la mia confusione totale. Ho capito di voler diventare una pediatra solo dopo aver cominciato a frequentar­e il gruppo: il danno peggiore che avrei potuto fare continuand­o così era verso i bambini, quelli che avrei voluto o quelli che avrei visitato mentre ero “fatta”. Oggi lavoro in ospedale, so cosa sia la dipendenza e sto alla larga da alcol, sigarette e social. Intercetto subito il terreno dove posso affondare. I bambini? Non ho avuto figli ma in studio accolgo quelli degli altri».

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La “formula di guarigione dei 12 passi”, adottata dagli Alcolisti Anonimi ed estesa ad altre dipendenze, si basa sulla forza del gruppo e sulla condivisio­ne.

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