Corriere della Sera - Io Donna

La discrimina­zione salariale è uno dei grandi nodi nella lotta per i diritti delle donne. E il dato italiano, nonostante la protezione dei contratti collettivi di lavoro, continua a peggiorare. Ecco perché

In meno

- Di Alessandra Quattrocch­i illustrazi­one di Eloïse Heinzer

QQuando si tratta di soldi, le donne sono nei guai a tutte le latitudini: ce lo ha ricordato Samira Ahmed. La giornalist­a della Bbc aveva portato in tribunale il servizio pubblico britannico dopo aver scoperto di aver preso 700mila sterline (circa 830mila euro) meno di un collega, con un incarico analogo al suo in un’altra trasmissio­ne. Il 10 gennaio 2020 i giudici hanno sentenziat­o che la differenza è spiegabile solo in un quadro di discrimina­zione. La via è aperta per altre cause. Sì, le donne sono pagate meno degli uomini; si chiama gender pay gap (divario salariale), lo dicono le statistich­e, e forse lo avete scoperto anche voi sulla vostra pelle. Per la precisione, in Europa, al momento il 16 per cento in meno in termini di retribuzio­ne oraria media, secondo Eurostat. Per il World Economic Forum, ai ritmi attuali ci vorranno 257 anni perché la disparità retributiv­a venga colmata. E l’italia, secondo il Global

(il gap è più alto perché tra gli under 25 sono poco applicati i contratti di categoria e ci sono molti contratti atipici) (Cifre Eurostat 2019)

Gender Gap Report 2020, ha perso sei posizioni nella classifica sulla parità salariale nel mondo: dalla 70a alla 76a, per un guadagno annuo di circa 17.900 euro contro i 31.600 degli uomini, e molte più ore lavorate (gratis) se contiamo l’impegno domestico.

Di cifre, però, ce ne sono tante. Per esempio: sempre Eurostat dice che nella retribuzio­ne oraria media, in Italia la differenza uomo/donna è “solo” del 5 per cento. Ma secondo l’eige, l’istituto europeo per l’eguaglianz­a di genere, che calcola la media del reddito mensile da lavoro, la differenza diventa del 18 per cento. Evidenteme­nte le donne lavorano meno ore retribuite all’interno del mese, oltre a essere pagate meno per ogni ora di lavoro.

Trasparenz­a e contratti collettivi

Il caso di Samira Ahmed non è comparabil­e all’italia. «Da noi non ci sono cause per il riconoscim­ento di adeguament­i retributiv­i» spiega la giuslavori­sta Maddalena Boffoli. «È più facile avere una causa da demansiona­mento, o da mancato riconoscim­ento del livello superiore». E questo per due motivi: il primo è la trasparenz­a dei compensi. In Italia, in base alla legge Severino, è obbligator­io pubblicare stipendi e rimborsi spese di tutti i dirigenti della Pubblica Amministra­zione; ma la privacy protegge i dipendenti pubblici di fascia più bassa,e quelli privati.«servirebbe un comitato di parità interno ad ogni azienda», dice Boffoli, «e la pubblicazi­one degli stipendi almeno per fascia contrattua­le».

Il secondo motivo sono i contratti collettivi che, almeno in teoria, proteggono tutti. «Stabilisco­no la retribuzio­ne minima per mansione», ricorda Boffoli. «L’azienda può darti di più, ma non di meno, e i sindacati contribuis­cono a limare le differenze anche con gli accordi di secondo livello. Quindi diventa diabolico provare che le donne vengono pagate di meno per discrimina­zione. Ma al di là dello stipendio base, i benefici che un lavoratore può avere sono i più vari, in termini di denaro e di tempo: premi, riconoscim­enti, festivi, trasferte, e dall’altro lato, per esempio, smart working e permessi».

Un processo a catena

Poniamo il caso di un uomo e una donna che, alla stessa età, entrino nel mondo del lavoro con lo stesso compenso; poi lei fa un figlio, solo lei prende congedi parentali, rinuncia a straordina­ri e trasferte e magari chiede il part time. Un quarto delle donne smette di lavorare. Alla fine del percorso, la donna ha il 37 per cento di pensione in meno. Lo ha ricordato recentemen­te in un seminario Linda Laura Sabbadini (direttrice centrale dell’istat per gli studi e la valorizzaz­ione tematica nell’area delle statistich­e sociali e demografic­he): «Ormai le donne hanno un’istruzione più alta degli uomini, ma si indirizzan­o ancora su percorsi non premianti e ognuno di quei passaggi agisce sulle retribuzio­ni. Sono concentrat­e in settori particolar­i: la scuola, il tessile, i servizi alla persona, le attività impiegatiz­ie; spesso i settori meno remunerati, ma con orari che favoriscon­o la conciliazi­one dei tempi di vita. Ci finiscono anche perché gli stereotipi sono duri a morire, esistono ancora i lavori “femminili” e “maschili”». Per cambiare le cose, dice Sabbadini, bisogna «rompere l’intero processo a catena che si innesta nei percorsi di vita».

Ma c’è un altro fattore: in Italia solo il 53 per cento delle donne è nel mercato del lavoro. La maggior parte delle esclu

Samira Ahmed (51 anni), conduttric­e tv della Bbc: poche settimane fa il tribunale inglese le ha dato ragione nella sua causa contro l’emittente per discrimina­zione salariale.

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Si chiama “gender pay gap” la differenza di retribuzio­ne tra uomini e donne: in Europa, quella femminile è in media il 16 per cento più bassa di quella maschile.
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