Corriere della Sera - Io Donna
Raffaello e la gloria di Roma
Una lettera dell'urbinate al papa, esposta alla mostra alle Scuderie del Quirinale, ribadisce il significato che ha avuto per la sua opera il lascito degli antichi: forza viva che agisce nel tempo presente per riportarlo alla passata grandezza
« Il che in un punto mi dà grandissimo piacere per la cognitione di cosa tanto excellente e grandissimo dolore vedendo quasi el cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato... Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! Che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata di calce e marmi antichi... Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, per testimonio del valore e della virtù di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtù gli spiriti che oggidì sono tra noi non sia estirpato, e guasto dalli maligni e ignoranti».
La vera sorpresa della mostra su Raffaello, aperta nei giorni del terrore del coronavirus alle Scuderie del Quirinale, è la lettera scritta, attraverso il letteratissimo Baldassarre Castiglione, a Papa Leone X per raccomandargli la rinascita della Roma antica, devastata più dall’ignoranza che dalle incursioni di Goti e Vandali. C’è dolore e passione in queste parole, e la piena consapevolezza che si agisce nel proprio tempo grazie a una storia così grande, di cui sono te- stimonianza le rovine, presente e non passato. Questa idea attiva delle antichità è il pensiero dominante di quegli uomini che rifecero grande Roma nei primi due decenni del secolo XVI.
La magniloquenza dell’antichità è di esempio per chi sente nel mito e nelle istorie la grandezza perduta dell’uomo, che si intende far rinascere. In questo assunto è riversato tutto il mondo spirituale di Raffaello, che si esprime nella grandiosa allegoria della Scuola di Atene. Le città di Raffaello sono state Urbino, dove è nato, figlio di quel Giovanni Santi anche lui pittore che riconosce i propri limiti, e cerca al figlio un miglior maestro in Perugino; Perugia, dove si è formato; Firenze, dove si misura con Leonardo e Michelangelo; e Roma, dove trova lo spirito per combattere, a fianco del papa, l’ultima e decisiva battaglia: quella contro la miseria dei tempi. La mostra delle Scuderie ha un difetto nella “trovata” di rovesciare il percorso dall’anno della morte all’anno della nascita, quindi dal 1520 al 1483. Il ritmo, con la riproduzione della tomba del pittore al Pantheon, è potente e incalzante, all’inizio, soprattuto nella sequenza dei ritratti: Leone X con i nipoti, Baldassarre Castiglione, l’autoritratto con un amico con le fattezze della insorgente maturità; e poi l’estasi di Bologna, tutti assoluti capolavori con i personaggi che, come in una rappresentazione teatrale, interpretano il testo della lettera al Papa. La mostra si mantiene coerente fino ai grandi cartoni con il Mosè inginocchiato davanti al roveto e la Lapidazione di Santo Stefano (con Giulio Romano), e l’incrocio di cartone, arazzo e rilievo antico con il Sacrificio
Il dialogo tra le opere e la tensione espositiva restano forti.
Al secondo piano, che inizia con il felice accostamento di una Venere romana, della Velata e della Fornarina, a cui è affiancato il modesto e non autografo Ritratto di ragazzo del Museo Thyssen di Madrid, il gioco del percorso a ritroso mostra i suoi limiti. Troppo tardi arriva il Ritratto di Giulio II, pensoso committente di Michelangelo e Raffaello; e di lì il pittore sembra restringersi nel cannocchiale rovesciato del ritorno alle origini, nello stile più stretto del Perugino, cui si sottrae solo la compiuta Madonna del Granduca, mentre sembrano galleggiare in una luce aurorale opere dichiaratamente giovanili, come la Madonna Tempi, il delizioso ed esile Sogno di un cavaliere, e lo stesso anemico e sfuggente autoritratto più noto ma non meno debole. Confrontando questa celebre quanto inespressiva immagine con l’autoritratto della maturità, che ci ha accolto in apertura, capiamo quanto, nell’arte e nella vita, conta l’esperienza. Anche per Raffaello.
Raffaello, Estasi di Santa Cecilia (1518 circa).