Corriere della Sera - Io Donna
Un buon uso della rabbia aiuta nella lotta al tumore
Telefono S.O.S. per le vittime di violenza domestica
Restare a casa, per troppe donne, può non essere rassicurante, ma un vero incubo, se il clima familiare è inquinato dalla violenza.
è il numero del servizio pubblico
1552 attivo 24 ore su 24 e gratuito,
promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Dipartimento per le Pari opportunità. Il servizio mette in contatto con operatrici specializzate nel ricevere richieste di aiuto e di sostegno da parte di vittime di violenza e stalking. Il servizio è multilingue e vi si può accedere protette dall’anonimato. L’operatore offre una serie di servizi diversificati: sostegno psicologico, consulenza giuridica, oltre a tutte le informazioni sui servizi territoriali, sia pubblici sia privati, che fanno capo alla rete nazionale antiviolenza.
La Fondazione per la Medicina personalizzata Fmp, che si occupa della salute - dai disturbi alimentari all’oncologia con riferimento all’aspetto psicologico delle cure, ha pubblicato uno studio su 300 pazienti malati di tumore, equamente divisi tra uomini e donne, con un’età media di 64 anni. Con tre questionari si sono misurate le reazioni emotive alla malattia - ansia, depressione e rabbia la qualità della vita percepita, e la percezione della gravità della propria malattia. Ne è emersa, in particolare, la prevalenza della rabbia: tanta, molto controllata e poco esternata. «La mancata gestione della rabbia rende più inclini i malati alla depressione» spiega il professor Paolo Marchetti, presidente della Fondazione e direttore dell’oncologia medica B del Policlinico Umberto I di Roma. «Ma la depressione impatta due volte sulla patologia, perché indebolisce il sistema immunitario dei pazienti e li rende meno collaborativi nel seguire le terapie necessarie». Incanalare la rabbia come rivolta, come desiderio di combattere il nemico tumore può invece aiutare nelle cure. Per questo la Fondazione, continua Marchetti, intende lo studio sulla rabbia come premessa a una attività di formazione rivolta ai medici, per analizzare più approfonditamente questo aspetto del vissuto dei pazienti (e di loro stessi). Con l’obiettivo di fare di questo ostacolo imprevisto una risorsa.
Notizie confortanti, anche se le conoscenze sul nuovo coronavirus sono parziali: non c’è evidenza che il virus si trasmetta durante il parto né con l’allattamento, se la madre è stata infettata. Spiega Serena Donati, direttore del Reparto Salute della Donna e dell’età Evolutiva dell’istiuto Superiore di Sanità (ISS): «Chi è in gravidanza non sembra più a rischio di contrarre il virus rispetto alla popolazione generale, al contrario di quanto successo con l’epidemia di influenza H1N1. E le donne con l’infezione sembrano avere un decorso non grave: uno studio su 15 positive al virus e guarite (4 in gravidanza, 11 che hanno partorito) ha riscontrato in tutte una polmonite lieve, curata durante la gestazione con antibiotici e ossigenoterapia. Nei nati da madri sintomatiche il virus non è stato trovato né nel liquido amniotico né nel sangue del cordone ombelicale. Non ci sono quindi prove di una trasmissione mamma-bambino del virus Sars-cov-2, e l’unico caso registrato di neonato infettato dalla madre sembra essersi verificato per via aerea». I dati disponibili finora si riferiscono al secondo e terzo trimestre di gravidanza, non si conoscono gli effetti del virus nei primi tre mesi. Continua Donati: «In caso di infezione, è possibile il parto per via vaginale, a meno che non ci siano indicazioni specifiche per il cesareo». Se le condizioni di salute lo permettono, la madre può allattare il neonato, direttamente o, se in isolamento, previa spremitura e biberon: «Dati i benefici del latte materno per il neonato, l’allattamento resta raccomandato» conclude Donati. Info: M.t.truncellito
epicentro.iss.it; salute.gov.it.