Corriere della Sera - Io Donna
Sorpresa:
“Ho scoperto il lavoro di mia moglie”
Domenica scorsa Alberto ha fatto gli gnocchi. Ha lessato le patate, lavorato l’impasto sulla spianatoia, preparato un sughetto delizioso. Moglie e figli erano increduli: se mai era entrato in cucina, in passato, era soltanto per chiedere quanto tempo mancava al pranzo. E non è finita lì: per i prossimi weekend Alberto ha un programma molto aggressivo di primi e secondi. Sui dolci ancora ha qualche timore, ma il prolungarsi della quarantena glieli farà passare.
Sta succedendo qualcosa, in queste settimane di convivenza forzata: i nostri compagni stanno scoprendo perché, la sera, le donne sono stanche. Eppure hanno sempre lavorato 22 ore a settimana in casa più di loro (fonte Ocse), magari dopo l’ufficio. Ma non ci credevano, o facevano finta. Ora c’è un barlume di consapevolezza. E non è solo un’impressione.
Paola Profeta, docente di Scienza delle finanze all’università Bocconi di Milano, ha appena pubblicato insieme a Marta Angelici la ricerca Smart working: work flexibility without constraints realizzata al centro Dondena (e parte del progetto Elena in collaborazione con il Dipartimento Pari Opportunità) prima che scoppiasse il coronavirus, quando lo smart working (che, ricordiamo, è un termine italiano, altrove si usa flexible work arrangements) aveva un ritmo più blando, di una volta a settimana. Ha seguito per nove mesi un campione di 310 lavoratori, uomini e donne, di una grande azienda tradizionale, e li ha messi a confronto con un gruppo di colleghi che non faceva lavoro a distanza. «Abbiamo controllato gli effetti su tre indicatori: produttività, benessere, equilibrio tra lavoro e vita privata», spiega la professoressa. «Per quanto riguarda la produttività,
Nuovi studi dicono che con il lavoro a distanza la produttività non cala e il benessere aumenta. Ma le maggiori novità riguardano gli uomni
abbiamo visto che di sicuro non diminuisce, perché ci si concentra di più sul risultato. Anche il benessere aumenta, c’è meno stress, si dorme meglio. Ma se nei primi due punti i maggiori benefici riguardano le lavoratrici, l’aspetto più interessante è che nel terzo, sul work life balance, le maggiori novità arrivano dagli uomini, che dedicano più tempo ai lavori domestici e alla cura dei figli. L’avevano già osservato alcuni studiosi americani, come Laura Goldin, professoressa di Economia ad Harvard: la flessibilità è il pezzo che manca per la parità di genere. O, come dicono loro, il last chapter per la gender convergence».
Certo la ricerca è stata effettuata in tempi pre crisi, è difficile ora immaginare le conseguenze di uno smart working così massiccio, duraturo e soprattutto imposto dalla necessità. «Non tutti i lavori possono essere smart allo stesso modo: soprattutto se si è a tempo pieno, si può soffrire per l’isolamento», continua la professoressa Profeta. «Ma l’occasione, per quanto obbligata, ci ha aperto gli occhi. Quella che oggi è una drammatica necessità potrebbe in futuro sbloccare le differenze di genere». Partire da una situazione difficile, anzi da uno choc improvviso, e tramutarlo in un’opportunità per le donne: perché no? «Può servire a riorganizzare i ruoli all’interno della famiglia. Nessuno voleva questo acceleratore ma, già che ci siamo, cerchiamo di coglierne gli effetti positivi».
E se i compagni non la colgono? L’ultima chance può essere il libro Come ho convinto mio marito a lavare i piatti, della consulente americana Eve Rodsky (Vallardi): se neppure lo smart working funziona, provate con il gioco di carte per coppie (100 carte, a ognuna corrisponde un’incombenza domestica) che propone l’autrice e che, lei dice, ha portato la pace in famiglia. Se la definiscono la Marie Kondo delle faccende domestiche, una ragione ci sarà. Forse.
Marco Rovello