Corriere della Sera - Io Donna
Ciao, lasciati guardare negli occhi
Il nuovo stile di socialità dipende anche dalle scelte personali, ma un tema abbraccia tutti: la ricerca di un sostituto al contatto. Un’inedita metrica degli sguardi, oltre l’attimo fuggente, ci può ri-consegnare agli altri
Il distanziamento deve essere fisico - un metro, due metri - non sociale. Al contrario: questa fase 2, nella quale tutte e tutti siamo entrati con speranza e smarrimento, ci chiama a una consapevolezza comunitaria. La consapevolezza che la rigenerazione alla quale ora tendiamo dipenderà, certo, dalle linee guida e dalle sanzioni decretate da chi ci governa, ma allo stesso tempo (e non meno) da quanto ciascuno di noi sa e saprà - senza stancarsi, senza distrarsi - avanzare lungo un sentiero scavato personalmente tra certezze (poche) e incertezze (infinite), tra regole e correzioni. Tocca a noi scaricare l’app e aggiornarla con i nostri dati di salute o malattia; tocca a noi selezionare quelli che nell’ordine ci sono stati presentati come parenti, congiunti, affetti stabili, persone care; tocca a noi indossare mascherine e guanti al supermarket o in metro; tocca a noi continuare a lavarci le mani spesso e mai per meno di 20 secondi. Toccherà a noi quest’estate meditare sugli sconfinamenti tra città e campagna, province e regioni, Nord e Sud.
E in tutto questo leggere, capire, ricaricare le nostre agende con informazioni essenziali a sopravvivere, in tutto questo rompicapo collettivo, ci mancherà il carburante che fa girare il motore del nostro stare insieme: il contatto, il tatto, la vita restituita dai sensi al completo. C’è un bellissimo racconto di David Grossman, ricordato qualche giorno fa dalla scrittrice milanese Gaia Manzini in un suo contributo alla newsletter Futura del Corriere della Sera. Un bambino chiede alla mamma se al mondo esista un altro come lui. Lei risponde che no, non esiste, perché ciascuno di noi è speciale nella sua unicità. Ben, il bambino, si adombra: vorrebbe che ci fosse almeno un altro essere umano simile, se non uguale, perché questo lo farebbe sentire meno solo, meno spaventato. La mamma gli garantisce che non ce n’è bisogno. Quando due persone si abbracciano, gli dice, la condivisione è in atto, in un incrocio che supera il battito distinto dei due cuori. Tocca dunque sempre a noi disegnare questo abbraccio nell’aria che ci separa, impacchettarlo come un dono e deporlo nello sguardo verso gli altri. Uno sguardo che potremmo imparare a tenere fermo per un tempo spropositato rispetto agli attimi fuggenti che ci dedichiamo d’abitudine. Guardarci per salutarci, stringerci, ri-conoscerci, per almeno 20 secondi: gli stessi delle nostre dita sotto l’acqua.
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La rubrica torna il 30 maggio.