Corriere della Sera - Io Donna
Caterina, fiera di essere una strega
Nel 1617 a Milano veniva arsa sul rogo Caterina da Broni. Accusata di stregoneria, non si discolpò. Lei le arti magiche le usava. Per difendersi dai maschi, come racconta ora un libro a lei dedicato
Di storie di streghe ne conosciamo così tante che cominciano a sembrarci tutte uguali. In quei secoli sedicenti bui del Medioevo e poi nel Cinquecento e nel Seicento, e via via fino a qualche caso settecentesco, donne innocenti sono finite bruciate o impiccate o decapitate o sono state imprigionate, sanzionate, torturate, bandite per accuse così assurde da parere grottesche e ridicole alla nostra mentalità del terzo millennio.
A Milano l’ultimo terribile rogo, in realtà, non bruciò una poveretta in carne e ossa, ma quintali e quintali di carta, e per gli storici rappresenta comunque una tragedia immane. Nel 1788 infatti, per ordine dell’imperatore d’austria, furono sistematicamente distrutti gli archivi dell’inquisizione che coprivano dall’anno 1314 all’anno 1764. I falò nel chiostro di Santa Maria delle Grazie proseguirono da giugno ad agosto, tanto per dare un’idea della quantità di atti che andarono distrutti nello slancio illuminista di Giuseppe II, il figlio di Maria Teresa d’austria che di fatto creò un buco documentale immane e irrimediabile.
Una vicenda nota anche al Manzoni
Se fosse dipeso da Giuseppe II, quindi, non avremmo mai conosciuto la storia vera di Caterina da Broni, soprannominata “la strega di Milano”, una vicenda molto esemplare, tanto da venire citata di sfuggita anche da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ma per fortuna in questo caso specifico l’accusatore era così importante e potente che i notai gli lasciarono una copia riassunta degli atti del processo, rimasti nella biblioteca di famiglia finché i professori Farinelli e Paccagnini, due storici specializzati in questo tipo di recupero, non riuscirono a metterci le mani sopra e a pubblicarli a fine degli anni Ottanta del Novecento come uno scoop.
L’illustre accusatore della malcapitata di turno era il no
bile senatore Luigi Melzi, futuro conte di Magenta, il quale nel 1616, avendo iniziato a soffrire di dolori di stomaco dai quali i suoi medici curanti non riuscivano a guarirlo, si convinse di essere stato maleficiato dalla sua serva Caterina, una donna sola, straniera del pavese, con una reputazione non cristallina, e quindi perfettamente corrispondente allo stereotipo femminile che oggi definiremmo “a rischio di accusa”. E Caterina finì male, com’è facile immaginare: inquisita, torturata, condannata a morire dove si “faceva giustizia” di quelli come lei, alla Vetra, lo stesso luogo che pochi anni più tardi sarebbe stato lo scenario della terribile fine dei presunti untori della peste del 1630, tra cui Gian Giacomo Mora, Guglielmopiazza e Gerolamo Migliavacca, vicenda a cui Manzoni dedica Storia della Colonna Infame.
Tornando a Caterina, il caso di una povera cameriera ingiustamente e orribilmente uccisa prendeva il cuore: di lei avevano scritto, più per sentito dire che altro, nomi illustri di illuministi e romantici del Settecento e dell’ottocento, dal Verri al Cantù al Manzoni stesso. La immaginavano una trepida fanciulla ignara di ogni stregheria, finita vittima dei cattivi di turno. Ma il primo a prendersi la briga di leggere con cura i riassunti del processo e a portare alla luce la vera Caterina fu un formidabile piccolo saggio del 1986 di Leonardo Sciascia, La strega e il capitano.
Sciascia capì una cosa importante e che accomuna molte donne che furono processate in quel periodo: come i suoi accusatori, anche Caterina credeva nelle streghe e pensava davvero di esserlo. Nella sua vita terribile (violentata quasi bambina dal suo signorotto, fatta sposare a 13 anni a un ruffiano e poi serva tutta la vita di padroni stupidi e crudeli interessati solo a sfruttarla in ogni modo possibile), aveva firmato col sangue un patto col demonio. Caterina si rivolge a Satana quando non ne può più: dopo aver invocato i santi che non la ascoltano, prova con i diavoli. E si ingegna a esercitare i suoi ingenui poteri in molte circostanze, come racconta vividamente negli interrogatori, dal momento che lei sa leggere e scrivere e si esprime con una certa proprietà nel memoriale che consegna ai giudici, a partire dal famoso episodio della “minestra di vivaroli”, una sorta di stracciatella alla lombarda con uova e formaggio, alla quale però l’aggiunta di qualche goccio di “sangue del mese” conferirebbe un gran potere di filtro d’amore. Niente di così strano: ancora oggi il sangue mestruale viene usato per ingenui incantesimi sentimentali nella tradizione popolare.
Insomma, Caterina è una strega ad amorem confessa: stanca di peregrinazioni, per conservare il suo posto di lavoro vuole fare innamorare il suo padrone Melzi, per il quale lei è quella che oggi definiremmo una sorta di badante. Lui è un anziano, vedovo, tra di loro c’è un rapporto molto speciale. Per giustificarlo, lei si inventerà al processo che a entrare nel suo letto non è stato l’illustrissimo don Luigi, ma un diavolo con le sue sembianze: certo, così la reputazione del senatore è salva. Don Luigi, dal canto suo, la definirà «brutta come il peccato» per allontanare da sé ogni sospetto, ma i giudici sollevano le sopracciglia, perplessi: no, Caterina non è così brutta, anzi, è una quarantenne di bell’aspetto e l’excusatio non petita del senatore fa supporre che ci sia del tenero.
Lei però non se la può cavare. In quel momento, ai potenti serve una sentenza esemplare. La condanneranno come una strega di quelle che fanno incantesimi ad mortem, dicendo che ha cercato di uccidere il suo padrone, cosa che lei non fece mai e che del resto non avrebbe avuto alcun interesse a fare.
Una figura modernissima
Dai resoconti del processo balza fuori una figura incredibilmente autentica e moderna. Una donna sensuale in un periodo in cui non era previsto che a una femmina potesse piacere fare l’amore; una che cerca di conservare la sua dignità in un mondo nel quale un servo è solo un servo; una che cerca di sfuggire a un marito impossibile che si trasforma in uno stalker ante litteram; che ha dei figli dai suoi padroni, viene costretta ad abbandonarli, a cambiare continuamente posto e impiego, in una peregrinazione frenetica che la condurrà a quella che lei considera una specie di terra promessa, Milano, e che invece si rivelerà una trappola mortale.
Basta guardare la lista dei suoi spostamenti, nell’oltrepò e nel Monferrato, terre di brume, di fiumi e di risaie, per tracciare la mappa della sua vita picaresca, col balzo finale (in tutti i sensi) nella capitale della dominazione spagnola sulla quale non si è ancora abbattuto il flagello della peste: una opulenta e bellissima, piccola Venezia solcata dalle acque dei Navigli, piena di botteghe, di traffici e di marmi del Duomo. Quando a Milano ci arriva, sul rogo alla Vetra stanno bruciando una donna che si chiama Antonia de’ Santini e Caterina ha come un presentimento.
A Milano infatti Caterina troverà morte e resurrezione: il rogo della Vetra, simbolo della peggiore ingiustizia, della superstizione al servizio del potere, del sopruso assurto a sistema, le regalerà l’immortalità nel nome di tutte le donne che prima e dopo di lei lotteranno per sopravvivere, senza lasciarsi spaventare. Perché, come dice Caterina nel romanzo che ho scritto su di lei, Io sono la strega (appena uscito da Solferino, vedi riquadro), «a dirvi la sincera verità, non credo che satanasso possa essere molto peggio di certi uomini che ho incontrato».
La strega e il capitano