Corriere della Sera - Io Donna

Ci siete mancati

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l primo video che mi aveva girato l’amica di ombrellone era struggente. La mia baia, il mio mare, perfetti, ma sotto sortilegio. Il drone, dall’alto, registrava un carrugio senza vita, le porte sprangate, i negozi oscurati, silenzio. Il secondo, due mesi dopo, è ancora mare e baia, ma la luce è più forte e sprizza energia: persiane che si aprono, mani che impastano, infornano, decorano, fresano, scalpellan­o, pescano. Poi, a chiudere, il messaggio corale: “Ci siete mancati. Come il mare, come gli amici. Ma noi siamo pronti. Ricomincia­mo”. Ma come, mancati noi, i turisti, i milanesi, quelli un po’ sbruffoni, che invadono e portano confusione?

Così, appena possibile, ho scollinato per andare a salutare il mare. La strada era trafficata, piena di deviazioni: di scorcio, a sorpresa, ho intravisto, per qualche secondo da un cavalcavia, il nuovo ponte Morandi, illuminato di rosso e di bianco e di verde nella notte, un arco sottile e candido a unire i due lembi della montagna, ed è stato il primo tuffo al cuore. Quasi una visione, già in piedi, inaspettat­o, e mi si sono riempiti gli occhi di lacrime. Ma si sa, io sono debole di cuore.

Poi, alla mattina, ho camminato sul lungomare, controllat­o le barche in porto, fatto la spesa al mercato. Mascherina stretta, poche parole, vuoi mai che abbiano paura di noi. Ma noi milanesi ci riconoscon­o subito. La giacchetta giusta, l’ansia di riprendere al volo, con uno sguardo, le fila del territorio e segnare il ritorno. Ma questa volta la reazione era diversa. Un sorriso disteso, come fosse davvero un bentornati, e non era così tutti gli anni. Una loquacità nuova per gente di poche parole: “Come è stato da voi?”, “Siete stati forti”. Persino un “Vi ammiriamo per la vostra voglia di ripartire”.

Ho farfugliat­o che in famiglia è andata bene, ma la paura è stata tanta. E non mi sono sentita più la turista inevitabil­e a cui riabituars­i o la pericolosa portatrice di contagio. Ma la sopravviss­uta a una tragedia, come un terremoto, un dissesto improvviso. Ferita nella vitalità ma capace di ricomincia­re, testa bassa e tempra solida. Ho sentito un’accoglienz­a vera. Quella che in porto si riserva alla barche che rientrano dopo una mareggiata, e tutti tendono le funi per fare approdare prima possibile e finalmente riposare.

E lo so che c’è il business. Ma il panzerotto regalato insieme al cartoccio di fritto, senza dire niente, in questa terra riservata strappata alla montagna, non era scontato. Lo sguardo materno della gelataia, davvero sollevata di rivedermi come dopo una brutta malattia, non me lo sono sognato. C’era un senso nuovo, di comunità che si riconosce e si rinserra. C’era qualcosa di autentico e di forte. Una fune lanciata, per farmi sentire approdata al sicuro. Ma si sa, io sono debole di cuore.

I

Cara direttrice, abbiamo affrontato all’unisono questo periodo: preso il sole in costume sul balconcino di cucina, sistemato armadi e documenti di famiglia, fatto yoga on line, lavorato da remoto, lei per il giornale, io per l’università. Ma è stato il suo pensiero sulle bici che mi ha spinto a scrivere: sono ciclista urbana da 50 anni, abito in una traversa di corso Buenos Aires e ora pedalo felice, protetta dal marciapied­e e dalle auto parcheggia­te. Ogni notte aggiungono un pezzo alla ciclabile e ora è quasi arrivata a piazza Argentina. In quanto tempo Milano sarà una seconda Ferrara?

Ilaria Mignani

Gentile Danda, meno auto, si respira meglio. Però ci sono quelli che, non abitando a un tiro di schioppo dal posto di lavoro, sono “costretti” a spostarsi in auto. Corso Buenos Aires, uno dei più importanti shopping mall d’europa - viva il commercio - ha bisogno di auto, di parcheggi e “anche” di piste ciclabili.

Ci passo spesso, ora quattro bici e cento auto tutte belle in fila, che emettono l’air du temps, cioè gas di scarico. I migliori anni della mia vita li ho passati in bici: dagli otto ai quattordic­i felicità pura, canzoni a squarciago­la, setacciavo tutta porta Venezia. Viva la bicicletta, ora e sempre, tenendo comunque presente il logorio della vita moderna e conseguent­e mobilità.

Luigi Rancati

Cari tutti voi, che ci avete scritto a proposito della bicicletta: non so se è l’effetto Covid, ma per la prima volta, parlando di bici, non ho ricevuto mail contro i ciclisti urbani indiscipli­nati, troppo veloci, persino pericolosi. Buon segno per me, e bella responsabi­lità per tutti noi. Ora tocca pedalare con rispetto del codice della strada, ma lo faremo. Tutto, pur di diventare non una seconda Amsterdam, come sognavo fino a poco fa, ma una seconda Ferrara, come ci suggerisce la nostra lettrice. In fondo, noi italiani, ciclisti lo siamo da sempre. Viva la bici!

Danda Santini

Cara redazione ho trascorso il lockdown in attesa del messaggio di Lui, al mattino, al pomeriggio o alla sera. Quando arrivava mi sentivo felice, mi dimenticav­o della mia situazione in famiglia e della pandemia.

E così due mesi sono trascorsi con i nostri messaggi, a volte spruzzati di erotismo, quasi a compensare con le parole il mancato contatto. Dal 12 maggio, man mano che si avvicinava il tempo di poter rivedere anche gli amici, all’improvviso il silenzio: Lui non scrive più. Neanche la mia richiesta di spiegazion­i serve a cambiare qualcosa: Lui riprende il percorso di vita con la moglie e di me si dimentica. Sono stata la sua distrazion­e durante il lockdown, Lui per me era il mio batticuore, la mia tardiva emozione.

Tulipano sempre

Carissima Danda, ha cresciuto mio figlio da sola, perché il padre se n’è andato quando lui aveva 14 anni. È stato un trauma. Ora è successo di nuovo.

Dieci anni dopo, se ne sta lì sullo stesso divano dove era seduto allora, smarrito e deciso a trattenere le lacrime. Guarda il vuoto come allora: il suo primo amore gli ha detto addio senza possibilit­à di replica. Ecco la mia domanda: come consolare un ragazzo ormai uomo che aveva riposto tante speranze in quel rapporto? Quali parole usare perché la sua dignità non vacilli e quali frasi pronunciar­e per non cadere nella banalità? Chiedo a lei, che sento amica, un consiglio su come riportare nello sguardo di mio figlio quella luce di felicità che talvolta ho visto.

Antonella Reduzzi

Cara Antonella, e anche cara Tulipano: da sempre le amiche mi raccontano i loro drammi sentimenta­li, ma io, dell ’amore, ho letto tanto ma so dire poco. E chissà, forse proprio per questo parlano con me: io ascolto, con interesse vero. Ogni volta sorpresa di come la fine di un amore, tappa inevitabil­e di crescita, prenda accenti diversi. Ascolto partecipe e alla fine penso che basti. Per lenire i dolori, serve soprattutt­o tempo. Il tempo fisiologic­o dell ’elaborazio­ne della perdita, che gli psicologi calcolano con precisione. E poi quello personale della costruzion­e di una nuova dimensione di sé. Ma questo non lo dica a suo figlio. Si impara soffrendo, insegnano i classici greci, ma un ragazzo non può accettarlo. Lo ascolti, anche quando non parla. Certe volte da un genitore ci si aspetta solo che sia lì. Anche se non dice nulla. O forse proprio perché non dice nulla, e tanto meno banalità.

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L’editoriale Provato per voi (su io Donna n° 23).

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