Corriere della Sera - Io Donna
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Ai figli si insegna, dai figli si impara
“Cammino curva e a quattro zampe, mi lascio stringere un dito: un nipotino ti legittima a danzare” dice la scrittrice. Che nel terzo romanzo autobiografico racconta a una sorella perduta e molto amata come sta crescendo la bambina che non ha potuto vedere
Questo è il racconto dei primi tre anni di vita di un essere umano e a farlo è una nonna. Un racconto meraviglioso, e per una ragione semplice: ci riguarda. Parla di chi cerca risposte, ricordi, sogni, e trova pezzi d’amore che nelle prime pagine suonano così: «quel desiderio di contatto che ha mosso le mie mani verso altri corpi in altre fasi della mia vita. E che da qualche anno taceva. Ho costantemente voglia di abbracciare. Di abbracciarla». A scrivere è Lidia Ravera e Tempo con bambina (Bompiani) è il libro che dedica a Mara, la nipote messa al mondo dalla figlia di sua sorella. Sarebbe anche lei una nipote se non fosse che quando la sorella muore (25 anni orsono), diventa invece figlia. Gli anni passano e la gioia di diventare nonna al posto della sorella la spinge a sdebitarsi così, raccontandogliela. È il terzo libro autobiografico contro i trenta romanzi, perché?
In realtà sono tre lettere d’amore. Bambino mio l’ho scritto sotto l’urto di quel miracolo che è mettere al mondo un altro essere umano. Sorelle, durante le prime terribili notti seguite alla morte di mia sorella. Questo invece perché ho sentito l’urgenza di raccontarle che cosa è successo, dopo che se ne è andata. Di presentarle Mara Piccola, la bambina che porta il suo nome e che si è imposta sotto il nome di Malvina anche nel nuovo romanzo che sto scrivendo. Credo che il materiale autobiografico sia presente sempre, in ogni libro. Scrivere è un soliloquio rivolto a tutto il mondo, diceva Pavese. Scrivere ci salva?
Sì, dall’inconsistenza del presente. Qui ho raccontato gli anni in cui, ogni giorno, esplori un territorio sconosciuto. La curiosità che si prova per questi principianti della vita è direttamente proporzionale alla distanza che ti separa da quel momento. Mio padre usciva dalla prigione della sua demenza senile tutte le volte che arrivava un bambino piccolo. Gli sorrideva. Gli parlava. Anche se non ho l’età che aveva lui all’epoca, osservare Mara per me è stata un’avventura magnifica. Un’avventura da nonna 2.0.
Sì, sono una di quelle che ha un lavoro, una vita sociale. Una volta le donne, quando non erano più né oggetti del desiderio maschile né mammiferi al servizio della riproduzione, scomparivano per riapparire quando diventavano nonne, cioè vicemadri. Oggi non è così e per me diventarlo è stata una sorpresa sentimentale: come scrive Lalla Romano ne L’ospite: “Una felicità molto più grave e appassionata e complessa di quello che mi ero immaginata”. È come se di nuovo fossi legittimata a danzare: mi accuccio, mi sdraio, cammino curva e a quattro zampe, mi lascio stringere un dito... Vorrei avere un rapporto quotidiano con Mara: invece lei è nata e vive in Texas e quest’estate non ci vedremo. Con la pandemia abbiamo ripiegato sulle tecnologie che non sostituiscono però l’abbraccio.
Le pagine sono piene di nonne, madri, zie, sorelle. Cosa lega le donne di famiglia?
Il rapporto con mia sorella è stato il modello che ha regolato quello con tutte le donne, anche fuori dalla famiglia. Provo per tutte un sentimento di solidarietà fra recluse nella prigione dei cliché. Le fregne le racchie le mignotte le vestali le zitelle le ninfette le ninfomani. Gli stereotipi fanno male e gli ultimi, quelli dedicati alle non - più - giovani, uccidono. Cosa dovremmo chiedere alle figlie?
Alle figlie - anche quelle altrui - offro decenni di esperienza sul campo e chiedo forza, speranza, intelligenza al lavoro. I maschi si selezionano da soli, in giusti e sbagliati. Racconto nel libro di quando mio figlio, appena quattordicenne, l’anno in cui adottai la figlia bambina di mia sorella, e dovetti traslocare di corsa per farle posto, offrì spontaneamente la camera più grande della nuova casa alla cuginetta che stava diventando sua sorella minore, perché potesse metterci il grande letto di sua madre, in cui aveva scelto di dormire. È una gran bella responsabilità, per una donna, crescere un uomo che rispetti le donne, che le valorizzi. Tutte le volte che mi pare di esserci riuscita sento una specie di orgogliosa allegria. Scrive: “Ai figli si insegna, dai figli dei figli si impara”. Un consiglio per una giovane madre.
La maternità ha qualcosa di magico e qualcosa di mostruoso. Dal tuo corpo esce un altro corpo che amerai per tutta la vita quanto ami te stessa, in qualsiasi condizione e senza condizioni. Consiglierei di godersi questo faticoso privilegio. Per il resto, parla chiaro il Vedanta: “Un figlio è un ospite nella casa”. Non è un prolungamento del tuo io. E poi Bettelheim che ricorda di mettersi sempre dal loro punto di vista perché noi la loro età l’abbiamo già avuta, loro la nostra no. Tocca a noi esercitare memoria ed empatia. Sua figlia oggi insegna all’università, in Texas, Filosofia politica.
L’ammiro molto per tutto ciò che fa. Rendendomi poi nonna mi ha consentito, almeno una volta nella vita, di far prevalere il cuore sul cervello. Ogni innamoramento è una perdita di sovranità su se stessi. Anche quello per i nipotini, ma perdere questa sovranità è bello. Ed è una conquista dell’età. Della nonnità. Cosa canterebbe con Mara?
Canto tutto, perfino Il ballo del qua qua. Con sua madre rivedrei invece Via col vento, film che io e mia sorella sapevamo a memoria. Aveva quattro anni più di me, la distanza giusta per insegnarmi tutto. Un giorno, quando stava per morire e lo sapeva, mi ha detto: la vita prende luce dalla fine. Ti accorgi di essere stato un viaggiatore distratto. Ecco, ho paura di non riuscire a rallentare e a godermi il tempo che mi resta.
Rossana Campisi
suo danno è percepire il dolore all’ennesima potenza, vivendo quello degli altri in maniera insopportabile. La condanna di un poeta, di un artista che guarda il mondo con occhi che non sono i nostri. Una settimana in ospedale psichiatrico tra dottori scostanti e infermieri preoccupati, con altri cinque uomini ai margini del mondo. Compagni di letto scombinati ai quali forse per la prima volta Daniele può mostrarsi per quel che è: una piuma che uno sputo di vento può portare via. Come noi tutti: possibile che non ce ne accorgiamo?
Acqua di sole
di Bianca R.cataldi
HARPERCOLLINS, PAGG. 336, EURO 16
Anche se si apre con una memorabile nevicata, quella dell’inverno ‘56, questo libro è permeato dal profumo dell’estate. Forse perché a legare le due famiglie protagoniste - i paesani Gentile che a Terlizzi coltivano fiori, e i borghesi Fiorenza di Bari che li acquistano per creare profumi - sono i bambini. Che, finché si sentono amati, vivono la realtà come una fiaba rassicurante. Anche quando sono presto proiettati verso l’età adulta - come Michele, che a 7 anni sa cogliere l’opportunità di ascesa sociale che gli regala la simpatia della piccola di casa Fiorenza. E non importa che all’orizzonte si addensino le nuvole. È ancora l’infanzia, è ancora l’estate. Al domani, ci si penserà domani... L.B.