Corriere della Sera - Io Donna
Un luogo non è mai per sempre
Una donna prigioniera che rifiuta di raccontare la sua storia. Ma poi lo fa: sognava l’amore, finisce prostituta e poi, suo malgrado, eroina. Una storia toccante, dall’autrice palestinese più letta al mondo
Contro un mondo senza amore di Susan Abhulhawa Feltrinelli, pagg 368, € 17
La storia del più complesso dei conflitti, quello Israelo-palestinese, scritta sulla pelle di una donna. La geografia di una vita da rifugiata tradotta in profumi, sapori, colori. Così l’autrice americano-palestinese Susan Abhulhava - un nome da non scordare per conoscere l’altra metà della verità mediorientale - si prepara con Contro un mondo senza amore (Feltrinelli) a un nuovo successo per intenditori, dopo che i precedenti libri, Ogni mattino a Jenin e Nel blu tra il cielo e il mare, sono stati tradotti in 25 lingue. E non ci si faccia ingannare dalla parola “attivista”, sottolineata nelle sue biografie: la vicenda di Nahr, nata in Kuwait da rifigiati, che sognava l’amore ed è divenuta prostituta, fuggita con la famiglia in Giordania dopo l’invasione americana dell’iraq, e trovatasi suo malgrado eroina in Palestina dove viene incarcerata, è piena di poesia. E fa trattenere il fiato fino all’ultima riga. Come si mescolano nei suoi libri realtà e fiction?
Ci sono sempre semi di realtà in un romanzo. Nel mio caso, il background è sempre preso dalla realtà che conosco: la situazione dei rifugiati palestinesi l’ho vissuta di persona. Però poi i fatti si rimescolano e creano una nuova trama. La forza del romanzo storico è proprio questa. Da dove viene il personaggio di Nahr, e che ruolo hanno le donne nella questione palestinese?
Il fenomeno dello sfruttamento delle donne è diffuso in Medio Oriente, come in tutto il mondo. Volevo raccontare la storia di una donna che passa attraverso la prostituzione, senza mancarle di rispetto. Raccontare quanto è difficile per una donna togliersi di dosso le etichette che le danno soprattutto gli uomini. Anche se poi Nahr cambia vita, la vergogna non le verrà mai scontata. In carcere le rinfacceranno il passato per confermare la sua dissolutezza di terrorista. Quanto alle donne nella questione palestinese, è un’idea occidentale che restino sottomesse a casa. La prima Intifada iniziò dalle donne, così la Resistenza.
La protagonista sognava l’amore. Nel cubo dov’è incarcerata, mentre scrive la propria storia, sottolinea subito che non prova più sentimenti. Da dove ripartire per un mondo non più “senza amore”?
Ho raccolto la testimonianza di persone tenute in isolamento per decine d’anni: dicono che mantengono la memoria, ma devono spegnere le emozioni, per non impazzire. Credo sia un meccanismo automatico di sopravvivenza. Per la situazione del mondo, invece, partirei dal presente e dalla pandemia: si parla di questo virus come fosse il nemico contro cui lottare. Questa è la prospettiva in cui l’uomo si mette al centro dell’universo, invece siamo solo una delle forme di vita della natura, e non l’abbiamo rispettata. Quando smetteranno la prepotenza e la prevaricazione, forse ci sarà un mondo diverso. Un altro tono del libro è il desiderio di sentirsi a casa. Cosa significa una vita da rifugiata per lei?
Significa che un luogo non è mai per sempre, è la condizione del popolo palestinese. Ancora ritorno al presente: sono naturalizzata americana da vent’anni. Ora in Usa il virus ha sollevato nuovi razzismi anti-asiatici e stanno togliendo la cittadinanza a chi l’aveva avuta. Per ora non a me: ma dovremo spostarci ancora? La sua è una versione della storia poco nota agli occidentali, suoi principali lettori. Qual è la reazione ai suoi libri in Europa e in America?
Una delle reazioni più diffuse è quella di chi conosceva la storia, ma è felice di apprenderla così: nuova e da vicino. A questi lettori devo il successo, anche negli Usa. Ma i giornali mainstream americani non hanno mai recensito un mio libro. Il silenzio è il loro modo di negarmi.
Giulia Calligaro