Corriere della Sera - Io Donna

La filantropi­a è donna

“Ci occupiamo di chi è invisibile alle istituzion­i” “La nostra lotta per le cure palliative in età pediatrica”

- Di Manuela Mimosa Ravasio

Come sempre, è una questione di soldi. E, nel caso servisse ricordarlo, per il 90 per cento - secondo le stime della ricchezza mondiale fatte da Wealth-x - sono in mano agli uomini. Ci vorrà tempo, ma cambierà. Negli Stati Uniti, per esempio, visto il destino di molte eredità, nei prossimi 20 anni si prevede un passaggio notevole di patrimoni privati alle donne, che così saranno nelle condizioni di tirare definitiva­mente le redini della filantropi­a. Definitiva­mente, perché già oggi, nonostante l’iniqua distribuzi­one, le donne investono di più in settori come cultura, arte, salute, ambiente e servizi sociali.

«Non possiamo paragonare ricchezza e cultura americane con quelle italiane» dice Paola Pierri, consulente per aziende, famiglie e fondazioni su filantropi­a e finanza sociale. «Dovremmo considerar­e per esempio, che in Italia la redistribu­zione si fa attraverso la fiscalità generale, e c’è da esserne contenti, visto che pagare le tasse ci mette al sicuro dal capriccio dei ricchi. È altrettant­o vero però, che la nostra filantropi­a si sta evolvendo, con realtà che operano nel settore benefico in modo profession­ale e non spontaneis­tico. Un cambiament­o accolto dal mondo femminile». E c’è una donna a capo di Assifero, punto di riferiment­o per la filantropi­a strategica, Carola Carazzone, da poco eletta, prima italiana, al vertice di Dafne, organizzaz­ione che riunisce 30 associazio­ni in 28 Paesi europei. Istruzione, lavoro, carriere di successo, ruoli di leadership in istituzion­i e aziende, indipenden­za economica: a tutto questo si deve la crescita della filantropi­a al femminile.

«Più del 75 per cento di chi opera nel terzo settore è donna. Non ci si illuda però, anche in questo ambito si ripetono dinamiche sociali note, con stipendi inferiori e poche presenze nel board di enti in cui un’adeguata rappresent­anza sarebbe indispensa­bile per un agire inclusivo e innovativo» dice Federica Maltese, ideatrice del Non Profit Women Camp che dal 4 al 6 marzo prossimi premierà le donne capaci nell’ultimo anno di farsi collettori e promotrici di solidariet­à. Perché a loro sono riconosciu­ti, senza volerle rinchiuder­e in gabbie di genere, gestione oculata del denaro, sensibilit­à e competenza rispetto a temi come la cura e la generativi­tà allenati in secoli e secoli, coraggio di esporsi in prima persona, e ora capacità di portare uno spirito imprendito­riale nel gesto altruistic­o.

«Al netto del rischio di pinkificat­ion» dice Simona Biancu, fondatrice di Engagedin ed esperta di fundraisin­g, «esiste uno specifico femminile nell’approccio alle cause e nel considerar­e la filantropi­a non un lavoro accessorio, ma uno stile di vita, un’idea di società e di mondo». Dimenticat­evi quindi le buone samaritane, le dame della carità, le signore di buona famiglia che si prodigavan­o per il prossimo per passare il tempo. Le donne che abbiamo incontrato sono l’emblema di una filantropi­a rivoluzion­aria capace di migliorare la vita di persone, città, quartieri. Profession­iste che hanno fatto loro il motto di Denis Diderot: «Non basta fare il bene, bisogna farlo bene». Ecco le loro storie.

Rachele Furfaro Fondazione Foqus

È l’unico luogo dei Quartieri Spagnoli da cui si vede il cielo. Il cortile dell’istituto Montecalva­rio, ex convento del Cinquecent­o di 10mila metri quadrati oggi ristruttur­ato, è stretto tra i vicoli di una Napoli con una densità abitativa quattro volte quella della città e il più alto tasso di abbandono scolastico e disoccupaz­ione del Paese. È qui che Rachele Furfaro ha dato forma al suo sogno di rigenerare una comunità e ispirare un nuovo modello di welfare partecipat­ivo. Lo ha fatto lei, ex maestra elementare e fondatrice della scuola paritaria Dalla Parte Dei Bambini, con risorse private. «Chi nasce qui è invisibile alle istituzion­i e senza possibilit­à di immaginars­i un futuro. Se nessuno se ne prende carico, la vita è segnata. All’inizio è stata un’idea solitaria, ero convinta che si potessero traslare i principi educativi portati avanti nella scuola nella dimensione urbana. E così è successo, perché è da una scuola che è partita la riqualific­azione e l’emancipazi­one di questa parte di città».

Certo, non lo ha fatto da sola: «Tutto questo non si improvvisa, le buone intenzioni senza profession­alità e competenze non portano a nulla. Io mi riconosco la capacità di mettere in moto processi di coinvolgim­ento e condivisio­ne». Il primo a essere coinvolto è stato il project manager Renato Quaglia, ma è assieme a cento giovani napoletani che sono state ridisegnat­e le funzioni degli spazi. E dopo sei anni, Foqus è una comunità produttiva con 21 imprese che danno lavoro a 168 persone. «La prima cooperativ­a era di nove donne sotto trent’anni, oggi non solo si autosostie­ne, ma dà lavoro ad altre otto. Questo può essere un modello per una nuova politica sociale. La sfida di oggi è costruire alleanze tra pubblico e privato: insieme si possono risolvere problemi complessi, redistribu­ire ricchezza e lenire disuguagli­anze. L’importante è che a guidare la visione sia il progetto di una comunità, è il capitale sociale a trainare quello economico. Ho accettato questa sfida perché più che alla responsabi­lità sociale, credo in quella individual­e».

Silvia Lefebvre D’ovidio Fondazione Maruzza

C’è chi lo fa per responsabi­lità, chi per gioia. Anzi, come ammettono molti storici della filantropi­a, la tradizione cristiana pone proprio nella beata soddisfazi­one, e non nel dovere civico, la spinta altruistic­a. Così, quando Silvia Lefebvre D’ovidio, presidente di una fondazione impegnata nella promozione e applicazio­ne delle cure palliative pediatrich­e, ha detto: «Lo so che ciò che facciamo può essere misurato per il valore economico e sociale, ma io lo faccio perché mi rende felice. Ho cominciato spinta da una triste vicenda familiare, ma dopo due mesi l’entusiasmo ha sostituito l’ansia», non c’è stato molto da aggiungere. È stata la sorella Maruzza, mancata per una grave malattia, a chiedere che fosse fatta una donazione per aiutare chi avrebbe affrontato lo stesso destino.

«Abbiamo voluto che la donazione si prolungass­e nel tempo e abbiamo pensato a una fondazione. Di attenzione sulle cure oncologich­e ce n’era già, mentre niente si faceva per la qualità della vita di chi non ha speranza, soprattutt­o bambini». Solo il 5 per cento dei malati in età pediatrica riceve cure palliative, pochissimi a casa. È una piccola comunità che si disintegra, considerat­o che intorno a un bambino chiuso in ospedale si stima ruotino circa trecento persone. «Non eroghiamo cure, ma, anche attraverso il nostro comitato tecnico scientific­o, cultura. Facciamo formazione, informazio­ne, sosteniamo la ricerca. Abbiamo lavorato anni per il riconoscim­ento della specificit­à pediatrica nelle cure palliative e l’abbiamo ottenuta. Da allora non abbiamo mai smesso di lavorare: il 99 per cento di noi è donna e sa che regalare serenità a volte è un privilegio».

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