Corriere della Sera - Io Donna

Nadeesha Uyangoda

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Il cuginetto cui Nadeesha Uyangoda affida il ricordo dell’incipit del suo libro (un bambino che fabbricava aquiloni enormi e sapeva leggere l’aria e le correnti) oggi costruisce statue di cioccolato a Dubai. Ha lasciato lo Sri Lanka molto tempo fa, come lei che dall’età di sei anni vive in Italia e - giovanissi­ma, non ancora terminato il percorso di studi - sta costruendo una carriera di scrittrice. A L’unica persona nera nella stanza (pubblicato da 66thand2nd), ha affidato il racconto del percorso che, da bambina che si arrampicav­a sui tetti a piedi scalzi, l’ha condotta in Italia, in Brianza, a Nova milanese, un paesino «dove mi sento a casa perché è lì che sono cresciuta, ma che ora mi va un po’ stretto. Sento forte il fascino di Milano, dei suoi quartieri multietnic­i, del movimento che c’è lì».

Nadeesha che - giura - sosterrà di «avere 25 anni almeno fino al compimento dei 32 perché, anche se è un po’ assurdo, ho paura di invecchiar­e», fatica a mettere a fuoco quella doppia cifra, forse perché il ricordo è fresco, e poi «è stato un momento in cui è successo molto, in cui c’è stato dolore perché ho perso la persona che mi ha cresciuta qui in Italia, insieme a mia madre. Ma se un riferiment­o importante per la mia vita purtroppo è uscito di scena, un altro è entrato: a 25 anni ho conosciuto il mio fidanzato».

All’annuncio in famiglia che stava uscendo con una ragazza, lui, Giovanni le riferisce: «Mia mamma ha chiesto quanto sei scura» - prima che la questione del “colorismo” («termine che in Italia non esiste ufficialme­nte, o meglio, la Treccani lo definisce come “la ricerca del colore nell’arte”») diventasse popolare grazie alle faide di Buckingham Palace. Eppure questa giovane donna sostiene di «non volere esaurire se stessa o tantomeno la sua scrittura nell’attivismo» e anche dalle battute che il suo compagno azzarda con gli amici («non preoccupat­evi, parla italiano») ha trovato il modo di trarre conclusion­i. Se ieri nel libro scriveva: «Mi mette estremamen­te a disagio, ma è un comportame­nto che ho scelto di tollerare perché so che è il suo modo di affrontare le occhiate sorprese, di sdrammatiz­zare», oggi a io Donna dice: «Il rapporto sentimenta­le tra due persone fa nascere modi e linguaggi che valgono solo dentro la relazione, sono comportame­nti che per chi sta fuori non è detto siano comprensib­ili. Non sono certa che Giovanni debba cambiare».

Anche perché - e questa sembra essere la sostanza del suo “qui e ora” - il cambiament­o, quello vero, può venire solo dalla mescolanza. E la coppia di cui lei è azionista al 50 per cento, la mette in pratica. Lo sostiene anche una delle sue autrici di riferiment­o (l’altra è Zadie Smith): «Chimamanda Ngozi Adichie, in Americanah, scrive che sono le coppie miste la soluzione alla questione razziale». Certo, in Italia forse c’è un pezzo di strada in più da fare: «È difficile far uscire allo scoperto il fatto che ci sono italiani con tratti somatici diversi e che ci sono da molto tempo».

Presto Nadeesha non potrà più dirsi una studentess­a: «Sono alla facoltà di Giurisprud­enza, sto scrivendo la tesi». Ma è possibile che la laurea finisca in un cassetto: «La scrittura ha preso il sopravvent­o. Scrivo da quando sono bambina, crescendo mi sono avvicinata alla questione migratoria, identitari­a, perché mi riguarda, ma con il mio libro credo di averla esaurita, voglio occuparmi anche d’altro». E se forse non sarà facile archiviare del tutto questioni cruciali per la vita delle seconde generazion­i («In Italia nazionalit­à e razza vengono ancora fusi insieme. Che cosa significa essere italiani oggi? Mi sembra sia uguale a come era cent’anni fa»), la messa in gioco più personale sembra essere solo all’inizio. Il confronto con la figura materna, «mio unico punto di riferiment­o perché i contatti con la famiglia in Sri Lanka col tempo si sono allentati» dove porta? «Mia madre nel libro è molto presente e quando l’ha letto i suoi ricordi sono riemersi. Avere una doppia anima e lasciare che le due metà convivano non è sempre facile. Non so se lei ci sia riuscita. Io, la mia metà singalese non sono riuscita a coltivarla, perché sono arrivata qui a 6 anni e sono stata subito incoraggia­ta a parlare solo italiano. È stato un processo inevitabil­e di assimilazi­one, ma non ho rimpianti: vivevamo in provincia, una bambina e una madre single. Abbiamo dovuto fare delle scelte per cercare di assomiglia­re il più possibile a chi abitava il nostro nuovo mondo».

Non ha intrapreso l’iter per l’otteniment­o della cittadinan­za, Nadeesha: «Perché mi sento italiana e credo che i bambini che sono nati e cresciuti qui dovrebbero poter diventare italiani solo con un atto di volontà: si è italiani se ci si sente italiani. Invece il racconto intorno all’otteniment­o della cittadinan­za è fatto di meriti, guadagni, storie che devono essere straordina­rie e di sacrifici. Il lusso della normalità, della mediocrità perfino, a noi non è concesso. Ecco, questo è un pensiero per il futuro, un’aspirazion­e legittima: essere e sentirsi giovani normali».

Paola Piacenza

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