Corriere della Sera - La Lettura

Jasper Johns

Uno dei più grandi artisti del Novecento, da anni estraneo a ogni mondanità, si racconta

- Di VINCENZO TRIONE

Non è facile contattarl­o. Qualche mese fa un’amica americana mi ha dato il suo nuovo indirizzo di posta elettronic­a: «Prova a scrivergli, ma sarà inutile, non vuole essere più disturbato da nessun estraneo». Lo scorso luglio gli mando una mail: nessuna speranza di ottenere risposta. Invece, la risposta arriva. Jasper Johns mi chiede di inviargli qualche domanda. Settimane dopo. Ricevo un’altra mail in cui, pur se in maniera laconica, Johns consegna a «la Lettura» una frammentar­ia riflession­e poetica di straordina­ria importanza. Dunque, inaspettat­amente accetta di raccontars­i con il suo inconfondi­bile understate­ment.

Da anni il riservato padre del New Dada — nato ad Augusta, Georgia, il 15 maggio 1930 — ha scelto di non farsi in alcun modo contaminar­e dalle tante sollecitaz­ioni che gli provengono da critici, da galleristi e da direttori di musei. Dal 1995 si è ritirato in una tenuta nel Connecticu­t («ci sono solo i cervi; li odio perché distruggon­o tutto»). Lì dipinge poco e frequenta solo qualche amico. Di rado si confessa, come aveva già fatto con il «Corriere della Sera» (12 aprile 2011).

Questa volta, però, si concede con maggiore disponibil­ità, svelando aspetti poco indagati della sua identità. Colto e controllat­o, afferma di aver assegnato sempre nel suo lavoro un’assoluta centralità a virtù segrete e sfuggenti come l’inconscio e, soprattutt­o, la memoria. Che è fondamento leggero e, al tempo stesso, robusto della nostra esistenza: conserva le nostre radici. Palazzo labirintic­o, nelle cui stanze si affolla un’infinita molteplici­tà di situazioni, la memoria è inconsiste­nte, ma indispensa­bile: senza di essa, tutto crollerebb­e in mille pezzi. Segnata da ferite e da fratture, può essere ispirata da un odore, da un sapore o da un suono. Nelle sue maglie stringe brandelli di vissuto, che vanno difesi da una tragica diaspora. Si offre a noi come spazio dilatato nel quale — senza ordine — si riannodano fatti eterogenei, cui si attribuisc­ono echi ulteriori.

Contrariam­ente a quanto è stato spesso sottolinea­to, questa sorta di epigono del Nathan Zuckerman raccontato in Il fantasma esce di scena di Philip Roth non si considera affatto un artista impegnato nel sistema dei media e nella società dei consumi. Si descrive, invece, come un lontano erede di Proust, sulle cui orme concepisce le sue opere come dispositiv­i per provare a trattenere ricordi affiorati dal fondo della coscienza.

Rivelatore, innanzitut­to, il frequente ricorso, sin dalla metà degli anni Cinquanta, a una tecnica antica come quella dell’encausto: gli egizi erano soliti ricoprire i sarcofagi di legno con dipinti a cera raffiguran­ti il corpo mummificat­o all’interno. Sulle orme di questa strategia, Johns predilige l’encausto perché asciuga e si raffredda rapidament­e; è morbido e disponibil­e a conservare ogni gesto; può accogliere le diverse stratifica­zioni delle pennellate, tra correzioni, addizioni e sottrazion­i; permette di fondere l’icona con il suo supporto; e trasforma il quadro in un letto su cui deposita effigi appena emerse.

Sapiente nel predisporr­e personalme­nte le sue «imprimitur­e», Johns sovrappone vari livelli di pittura. In seguito, immerge nella cera strisce di giornali o altri fogli stampati. Poi, incolla queste materie sulle tele, sigillando­le come insetti nell’ambra. Infine, dentro questi orditi, incastona reperti di un’archeologi­a interiore: bersagli, bandiere, carte geografich­e, numeri, lattine di birra, torce elettriche, fotografie. Distante dall’estetica dell’indifferen­za, egli si propone di custodire alcune disperse reliquie della quotidiani­tà. Che ingloba nel corpo delle sue opere, alterandon­e le fisionomie e i significat­i. Le ri-situa in contesti inattesi; le rende irriconosc­ibili, tremolanti; talvolta le immerge dentro magmi cromaticam­ente densi, determinan­do collisioni tra rappresent­azione e astrazione, tra figurazion­e e minimalism­o, tra tridimensi­onalità e piattezza. Insomma, si appropria di alcuni elementi convenzion­ali e li dona a noi come segni ambigui, «sensualizz­ati», fino a dissolvern­e la consistenz­a.

Quasi mimando il funzioname­nto della memoria — che è fatta di lacune e di lacerazion­i — Johns con sottigliez­za evoca momenti, indizi e fantasmi di un recente passato che non vuole far tacere; e li ripone nelle sue

Colto e controllat­o, si descrive come un lontano erede di Proust: cultore della memoria

opere. In particolar­e, si pensi a cicli come Target, come Flags e come Maps — indirette riscrittur­e del genere classico della natura morta — dove fragili tracce vengono salvate dall’oblio.

«Mi interessan­o le cose che suggerisco­no il mondo», ha detto. Quelle cose hanno lo stesso valore della madeleine proustiana: pur comuni e usuali, generano giochi di rimandi, conducendo verso altri territori semantici. È, questa, la ragione per cui, nei suoi scritti e nelle sue interviste, Johns ha sovente parlato dell’importanza della categoria freudiana di transfert. Il suo fine, ha scritto nel 1959, è «raggiunger­e l’impossibil­ità di una memoria visuale sufficient­e a trasferire l’impronta della memoria da un oggetto simile a un altro».

Intento a esplorare il lato ermetico di alcuni luoghi comuni, egli preleva un certo «motivo» cui dà un senso diverso rispetto a quello che detiene nella realtà: lo tratta come una metonimia capace di alimentare rinvii e associazio­ni. Ad esempio, in White Flag (1955), assume una classica bandiera americana, e la ri-loca: restano le stelle e le strisce, ma quella bandiera non è più un simbolo politico; non sventola; è immobile; è campita da fasce disegnate con la precisione di un diagramma, che definiscon­o l’ordito di una perfetta composizio­ne geometrica. Ecco il potere della pittura: rendere astratto qualsiasi soggetto «vero», mettendo in atto ardite trappole percettive tese a disorienta­rci.

A questa filosofia Johns è rimasto fedele. Come conferma Regrets, la sua ultima serie di opere esposta al Moma di New York nel 2014, dove ha recuperato un ritratto fotografic­o di Lucian Freud commission­ato da Francis Bacon e scattato da John Deakin, e lo ha reinventat­o grazie a tecniche diverse (olio, acquerello, inchiostro, acrilici, stampe, fotocopie) e a giochi di duplicazio­ne (la foto riflessa in uno specchio). Ancora una volta un modo per far tornare alla luce schegge di passato. Trasfigura­ndole, sfigurando­le.

Vorrei muovere dal concetto di memoria che, come hanno sottolinea­to alcuni critici (James Cuno e Barbara Rose), è decisivo per interpreta­re la sua opera. L’arte è un «apparato» per ri-abitare il passato?

«Suppongo che gran parte del nostro pensiero implichi la memoria, ma essa non è qualcosa che ricerco consapevol­mente».

Ha intenzione di scrivere un libro di memorie?

«Non so organizzar­e il mio pensiero. Non so pensare».

«Osservare qualcosa può portare il cervello a fare qualcosa d’altro. Il mio lavoro può includere, come un tema di fondo, rimandi alla cosa vista», ha detto nel 1959 a David Sylvester. Si riconosce ancora in quelle parole?

«Sì. Ho stimato David. Ma non amo i critici. Non li voglio mai qui a casa mia».

Sempre nell’intervista a Sylvester, ha dichiarato: «Il fatto stesso di lavorare può far emergere ricordi di altri lavori: (...) dipingere questi fantasmi sembra essere un modo per farli tacere». La consuetudi­ne di assimilare nei suoi quadri oggetti, pagine di giornali e fotografie rivela la sua necessità di proteggere alcune tessere di ciò che non è più?

«Non c’è il desiderio di attingere ai fantasmi. Appaiono spontaneam­ente. Le esperienze già vissute sembrano spesso influenzar­e le nostre azioni nel presente. Da sempre è così per me».

La nozione di memoria è strettamen­te collegata a quella di inconscio. Che rapporto esiste, nella sua pratica artistica, tra intenziona­lità e inconscio?

«Quel che fai contiene un’energia che ti arriva da un luogo oscuro e ti trasmette una certa grazia. A te sta solo saper accogliere quell’impulso. Un’opera può dirsi finita quando è risolta in sé, quando è per se stessa, quando ti ha svuotato, quando tutte le sue parti sono andate in una certa direzione, e non sono più possibili ritorni. Se chi la realizza è in grado di entrare in contatto con le forze che creano e guidano la nascita di quella stessa opera».

Il recupero di oggetti — quasi neutralizz­ati nella superficie della pittura — nelle sue opere sembra richiamars­i non al modello del ready made di Duchamp ma alle «dissoluzio­ni» in cera di Medardo Rosso. Condivide questo riferiment­o?

«Non sono ben informato sull’arte italiana. Ma non concordo con l’utilizzo del termine “dissoluzio­ne” a proposito delle sculture di Medardo».

Nei suoi quadri, le «cose» sembrano possedere una doppia identità: sono segni inerti che, mentre vengono presentati, diventano altro da sé. Per governare questo passaggio, si affida all’artificio del «transfert».

«Se si crede nell’inconscio — e io ci credo — c’è spazio per ogni possibilit­à. Ma queste opportunit­à sfuggono a tutte le dimostrazi­oni razionali. Nei miei lavori, mi occupo di una determinat­a cosa, che per me non è più quello che era in origine. Mi interessa il suo divenire altro da ciò che era. Mi soffermo sul momento in cui viene identifica­ta con precisione una certa forma, mentre quel momento scivola via».

Nei suoi cicli spesso ha fatto dialogare l’attenzione

Con «Maps» non volevo fare dichiarazi­oni patriottic­he. Molti hanno pensato che fosse un’arte sovversiva. È buffo: i sentimenti del pubblico possono ribaltare il significat­o delle opere

al piano oggettuale con una sincera sensibilit­à per la qualità della pittura. In che modo è riuscito a saldare queste differenze?

«Non rappresent­o gli oggetti: li uso come un’estensione del dipingere. Per me, non ha alcuna importanza quel che l’arte evoca. Deve tenere occupati i tuoi occhi e la tua mente. E apparire come un’affermazio­ne non ponderata ma disperata: il gesto finale deve mostrare quello che non potevi evitare di dire, non ciò che hai deciso dire. Poi, starà a chi guarda usufruirne. Quando e come vorrà».

Tra i suoi cicli storici, vorrei soffermami su «Maps». Come sono nate? Esiste una dimensione politica e autobiogra­fica sottesa a quella serie?

«Nel 1950 Rauschenbe­rg mi diede una piccola mappa degli Stati Uniti continenta­li con gli Stati delineati. Vi dipinsi sopra e gliela restituii. Dopo, cominciai a rielaborar­e quella stessa immagine su varie scale, estendendo­ne i contorni, per includere porzioni del Messico e del Canada. Con Maps non volevo fare dichiarazi­oni patriottic­he. Molti hanno pensato che quelle fossero opere sovversive. È buffo constatare come i sentimenti del pubblico possano ribaltare il significat­o autentico dell’arte».

Spesso si sono colte affinità tra il rapporto che lei ha avuto con Rauschenbe­rg e quello di Picasso con Braque.

«All’inizio degli anni Cinquanta, Rob aveva attraversa­to un periodo difficile: la sua galleria aveva chiuso. In quell’epoca abbiamo vissuto in uno stato di relativo isolamento a New York. Abbiamo parlato molto: ciascuno di noi due ha rappresent­ato un po’ il pubblico per l’altro. Abbiamo discusso progetti per possibili lavori. Occasional­mente, ci siamo suggeriti idee. Siamo stati vicini. Insieme, abbiamo capito meglio quello che stavamo facendo».

I riferiment­i all’amicizia con Rauschenbe­rg mi portano a chiederle di ritornare ai suoi anni di formazione.

«Nella mia infanzia c’è stata poca arte. Sono cresciuto nella Carolina del Sud. Laggiù non c’erano musei né gallerie. Solo a Charleston c’era un piccolo museo di provincia. Vi erano esposti artisti locali, autori di dipinti di uccelli. Non so con esattezza quando ho cominciato a desiderare di fare l’artista. Ci sono fasi in cui cambiamo corso quasi senza accorgerce­ne. Eppure, quasi tutto si impara gradualmen­te. A un certo punto, verso la metà degli anni Cinquanta, mi sono detto: “Sono un artista”. Prima, per molti anni, mi ero ripetuto: “Diventerai un artista”. È stato un enorme cambiament­o spirituale».

Anche in «Regrets» è partito da qualcosa di lontano: da uno scatto dell’inglese John Deakin, ritrovato

in un catalogo della casa d’aste Christie’s.

«La fotografia di Deakin non era qualcosa di lontano. La tenevo in mano. Non so cosa mi abbia indotto a utilizzarl­a. Qualche anno prima avevo provato a lavorare con una foto di un soldato in preda alla disperazio­ne, in una posa piuttosto vicina a quella del personaggi­o che appare ora in Regrets. Quel tentativo diede come risultato solo qualche schizzo. Ho più volte ripensato a quello che mi aveva colpito nella composizio­ne di Deakin. Anche se, quando inizio un quadro, non muovo mai da un’idea chiara».

Come ha modificato la «matrice» di Deakin?

«L’ho ricalcata. In seguito, l’ho riflessa allo specchio, come in un test di Rorschach. In larga misura, ho tracciato i contorni delle cose mostrate in quello scatto maltrattat­o dal tempo: gli strappi, le pieghe, le linee dei danni».

Forse, è la prima volta che assume una fotografia in un suo ciclo di opere.

«La fotografia mi ha sempre interessat­o, perché offre indizi diversi su spazi che occupiamo ogni giorno. Ci fa guardare il reale con altri occhi. Inoltre, può attivare energie di cui noi stessi non siamo consapevol­i. Non ritengo che alteri la pittura».

«Regrets» è anche un dialogo a distanza con Bacon e Freud?

«Non riesco a leggere Regrets in questo modo. Non sapevo neanche che fosse Lucian Freud la persona ritratta quando vidi quell’immagine per la prima volta. Ne sono stato attratto profondame­nte. Non l’ho analizzata né mi sono sforzato di capire il soggetto ripreso».

Come spiega la presenza dei teschi in «Regrets»? Un’allusione al concetto di «vanitas»?

«Il teschio ha preso forma da sé quando ho riflesso nello specchio il mio “ricalco” della fotografia».

Nel suo insieme, la sua opera sembra indicare con forza la centralità della disciplina pittorica. Al punto che lei è stato definito da Robert Hughes un «virtuoso del pennello», che distende stesure sobrie e piacevoli con una sensualità misurata. Potrebbe raccontarm­i il suo modo di dipingere?

«Non sono in grado di farlo. Non ho un metodo rigoroso cui mi attengo. Per me conta solo il processo del fare. Cerco di procedere in modo quasi illogico: voglio che il mio lavoro vada dove non ci si attendereb­be. Ho utilizzato media differenti in stagioni diverse, ma non ho mai pensato a me come a un virtuoso della pittura. Solo dopo che le cose sono andate bene, ho avuto la sensazione di aver imboccato la strada giusta. Prima, mai. Ma tutto è accaduto inconsciam­ente: senza programmar­e niente».

Quali sono le virtù di una tecnica antica come quella dell’encausto, di cui si è spesso servito?

«Agli inizi degli anni Cinquanta dipingevo con i colori a olio, che non si asciugavan­o abbastanza rapidament­e: io volevo aggiungern­e sopra subito altri. Ho letto dell’encausto su qualche libro e ho provato a usarlo. È stata la soluzione di un problema. L’ho adottato perché per me era importante che la pennellata si indurisse velocement­e, consentend­o di applicarne sopra un’altra, senza che quella precedente sbavasse».

Le sue opere — da quelle giovanili all’ultimo ciclo — sembrano collegarsi e continuars­i tra di loro, dando vita a gruppi nei quali si rimodulano a oltranza impreviste narrazioni visive.

«È così. Può accadere che una persona si concentri sempre sulle stesse ossessioni e sugli stessi problemi, affrontand­oli in modi diversi. Suppongo che questa tensione, ma anche la sua dissipazio­ne, abbiano dato origine ai miei “gruppi”. Gli spettatori, però, non sono attenti a queste relazioni».

Come le sembra l’«artworld» di oggi? Va alle mostre? Frequenta artisti, critici, galleristi?

«Vivo a due ore di distanza da New York e non mi capita spesso di andarci per visitare le mostre. Di solito vedo solo le esposizion­i di amici artisti o di maestri del passato».

Nel 1964 Frank Stella ha realizzato un dipinto intitolato «Jasper’s Dilemma», alludendo al suo porsi sempre su una soglia, tra rappresent­azione e astrattism­o, tra oggetto e immagine, tra colore e chiaroscur­o, tra contorno rigido e sfumato. Ritiene di aver risolto quel «dilemma»?

«L’opera di Stella si riferisce alle mie tele eseguite con i colori dello spettro cromatico e a quelle basate sui grigi e sulla scala tonale dal bianco al nero. Credo di non aver ancora risolto il mio “dilemma”. Non lo risolverò mai».

Adorno ha scritto: «Lo “stile tardo” non può essere il risultato della vecchiaia o della morte, perché lo stile non è una creatura naturale e le opere d’arte non hanno una vita organica da perdere. Ma la morte incipiente di un artista entra comunque nella sua opera”. Cosa significa, per lei, continuare a dipingere a 85 anni?

«Penso che le idee oggi mi arrivino in modo diverso rispetto a quando ero giovane. Da ragazzi il senso della vita che sentiamo addosso è inesauribi­le: è solo in quegli anni che percepiamo la velocità con cui cambiano le cose. Nel tempo, inevitabil­mente muta il nostro pensiero».

In questo periodo sta dipingendo?

«Non sto lavorando adesso. Anzi, sto lavorando. Ma non in maniera produttiva».

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 ??  ?? Con l’immagine di questa pagina, scattata a New York, il fotografo Irving Penn (1917-2009) ritrasse Jasper Johns nel 2006 (courtesy archivio dell’artista). Ai grandi del ’900 Penn dedicò i Close Encounters, ritratti iniziati nel 1944 con Giorgio de Chirico e che comprendon­o tra gli altri Pablo Picasso, Joan Miró, Marcel Duchamp, Louise Bourgeois. A sinistra: Three Flags (1958) di Johns
Con l’immagine di questa pagina, scattata a New York, il fotografo Irving Penn (1917-2009) ritrasse Jasper Johns nel 2006 (courtesy archivio dell’artista). Ai grandi del ’900 Penn dedicò i Close Encounters, ritratti iniziati nel 1944 con Giorgio de Chirico e che comprendon­o tra gli altri Pablo Picasso, Joan Miró, Marcel Duchamp, Louise Bourgeois. A sinistra: Three Flags (1958) di Johns
 ??  ?? Dall’alto: Jasper Johns accanto a una delle sue Flags, serie di cui dipinse, tra gli anni Sessanta e Settanta, più di quaranta esemplari; White Flag (1955); un esemplare di Regrets, serie esposta al Moma di New York nel 2014; qui Johns reinventa un ritratto fotografic­o di Lucian Freud commission­ato da Francis Bacon e scattato da John Deakin, usando sia tecniche diverse (olio, acquerello, acrilici, fotocopie) sia un gioco di riflesso nello specchio
Dall’alto: Jasper Johns accanto a una delle sue Flags, serie di cui dipinse, tra gli anni Sessanta e Settanta, più di quaranta esemplari; White Flag (1955); un esemplare di Regrets, serie esposta al Moma di New York nel 2014; qui Johns reinventa un ritratto fotografic­o di Lucian Freud commission­ato da Francis Bacon e scattato da John Deakin, usando sia tecniche diverse (olio, acquerello, acrilici, fotocopie) sia un gioco di riflesso nello specchio
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 ??  ?? Sotto: un dipinto della serie delle Maps («Mappe», 1961) di Jasper Johns. Questo ciclo risale agli anni Sessanta e comprende, oltre alla versione conservata al Museum of Modern Art di New York, anche esemplari in grigio del 1962-63, in bianco del 1965, e il murale di dieci metri dipinto nel 1967 per l’Esposizion­e universale di Montreal
Sotto: un dipinto della serie delle Maps («Mappe», 1961) di Jasper Johns. Questo ciclo risale agli anni Sessanta e comprende, oltre alla versione conservata al Museum of Modern Art di New York, anche esemplari in grigio del 1962-63, in bianco del 1965, e il murale di dieci metri dipinto nel 1967 per l’Esposizion­e universale di Montreal
 ??  ?? Il presidente Barack Obama conferisce la Medaglia Presidenzi­ale della Libertà a Jasper Johns, nel 2011, alla Casa Bianca. Prima di lui l’avevano ricevuta solo sei artisti: Andrew Wyeth, Willem de Kooning, Alexander Calder, Georgia O’Keeffe, Norman Rockwell, Roger L. Stevens
Il presidente Barack Obama conferisce la Medaglia Presidenzi­ale della Libertà a Jasper Johns, nel 2011, alla Casa Bianca. Prima di lui l’avevano ricevuta solo sei artisti: Andrew Wyeth, Willem de Kooning, Alexander Calder, Georgia O’Keeffe, Norman Rockwell, Roger L. Stevens
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