Corriere della Sera - La Lettura
David Foster Wallace La tragedia della banalità
Uno scrittore non serve a se stesso, ma agli altri: ecco il senso di «The End of the Tour», il film che celebra l’autore di «Infinite Jest» a vent’anni dall’uscita. Hemingway fu l’interprete della tragedia collettiva del ’900, lui fu l’interprete di una s
Di recente ho fatto un sogno. Ricevevo l’invito per una cena di gala nella quale si celebravano i 3.500 scrittori migliori di me. Era proprio scritto così, sull’invito, e io ci andavo, e c’erano tutti gli scrittori che conosco, anche solo di nome, e che fossero migliori di me era un dato di fatto indiscutibile, che io accettavo come si accetta il ranking Atp. In effetti, quello che provavo in mezzo a loro era molto simile allo stato d’animo che avevo da ragazzo quando facevo i tornei di tennis, e che conosce benissimo chiunque abbia fatto sport agonistico a basso livello: gli avversari mi salutavano, io li risalutavo, erano migliori di me, non c’era nemmeno bisogno che mi battessero — discorso chiuso. Non c’era dolore, ecco.
Il problema, semmai, era quella folla immensa di altri scrittori del tutto sconosciuti, mai sentiti nominare, che nemmeno mi salutavano — la grande maggioranza, in realtà, perché 3.500 sono tanti: onestamente, quella folla mi metteva a disagio, sapeva molto di fallimento. Ad ogni modo a un certo punto della cena, Stephen King prendeva la parola e faceva un discorso stupefacente, meraviglioso, tutto incentrato sul sollievo dell’essere migliori di me. Io lo ascoltavo ammirato. Riconoscevo che un discorso così non sarei mai stato in grado di farlo. Pensavo che quel sollievo non avrei mai potuto provarlo, poiché ero l’unico al mondo che non avrebbe mai potuto essere migliore di me.
Ero ancora sotto l’influsso di questo sogno quando ho visto The End of the Tour, il film di James Ponsoldt (1978) tratto dal libro Come diventare se stessi (2010) di David Lipsky (1965) basato sui cinque giorni trascorsi da quest’ultimo in compagnia di David Foster Wallace (1962-2008) in occasione del tour promozionale di Infinite Jest (1996). Avevo letto il libro, naturalmente, e dunque mi ero già commosso dinanzi al resoconto di quel breve, intenso pezzo di strada condiviso da due scrittori con lo stesso nome, così giovani e così diversi tra loro: ma il film mi ha fatto scoprire profondità ulteriori in cui ruzzolare con la mia commozione, anzi probabilmente le ha proprio prodotte.
È strano, dato che il film è pura finzione mentre il libro è solo in piccola parte artefatto dalla scrittura, ma mi è sembrato di capire ancora meglio cosa c’è di magistrale e di struggente nella figura di David Foster Wallace, e quanto la sua comparsa su questa terra sia stata preziosa per tutti tranne che per lui. Mi è successo quello che mi succede sempre quando leggo Wallace, e cioè mi sono trovato ad avere pensieri improvvisi e illuminanti che il film innescava tramite altri pensieri improvvisi e illuminanti, diversi dai miei, espressi da Wallace. Ho patito la luttuosa mancanza della possibilità di annotarli a margine della pagina, cioè di chiosare il film come faccio sempre con i suoi libri — e perciò questi pensieri li ho perduti. Mi sono sentito intelligente e mediocre nello stesso tempo, perché tutto ciò che veniva detto lo capivo benissimo ma era lampante che non avrei mai saputo esprimerlo e nemmeno provarlo autonomamente, perlomeno in quel modo.
Molto più che leggendo il libro mi sono identificato in Lipsky — nel Lipsky di allora, trentenne autore sconosciuto — anzi in realtà in Jesse Eisenberg (1983), l’attore che lo interpreta, mentre a interpretare Wallace è Jason Segel (1980) —, non nel Lipsky di oggi che si può vedere su Google, cinquantenne dall’aria un po’ piaciona, fotografato davanti al fondino tempestato di sponsor del festival dove passa il film di un certo successo tratto dall’unico libro di un certo successo che abbia pubblicato. (E anche questa depravazione intellettuale per cui si giudica un uomo da una fotografia che gli hanno scattato, quell’«aria un po’ piaciona» che mi è appena scappato, ha molto a che fare col nucleo fondente di questo film, in cui si vede la disperata, eroica e inutile resistenza che
Wallace cercava di opporvi). E sono stato infilzato come una farfalla dalla battuta finale che Wallace rivolge a Lipsky, nel momento della separazione, e dalla risposta che riceve: «I’m not so sure you wanna be me»; «I don’t».
Sta lì, infatti, il distillato ultimo del colossale processo di osservazione, conoscenza, catalogazione, analisi, comprensione, compassione e rappresentazione di ogni manifestazione umana che rende così unica la scrittura di Wallace — in quelle due battute. L’ammirazione che ha sempre suscitato negli altri, fin dai suoi esordi, esplosa per l’appunto col successo di Infinite Jest — e capace di evolvere, come abbiamo visto, in adorazione, antipatia, invidia, competizione, devozione, fanatismo, emulazione —, non è in grado, né potrebbe mai esserlo, di scardinare il più banale fondamento del Principium individuationis: chiunque tu sia, io non voglio essere te. Posso desiderare di essere come te, soprattutto in tutte le cose nelle quali sei migliore di me, ma di rinunciare al mio ego dolente, scor- tecciato, umiliato, frustrato, limitato e così meno celebrato del tuo, non se ne parla proprio. Il film è una specie di dimostrazione plastica, cioè eseguita con l’aiuto di pupazzi eterodiretti (gli attori, entrambi molto bravi), di quanto il valore di uno scrittore non serva tanto a lui stesso, bensì agli altri. La condanna che perseguitava David Foster Wallace era il fatto di essere l’unico al mondo che non potesse godere del genio di David Foster Wallace.
Nella sua epoca, che poi è anche la nostra, Wallace ha avuto in sorte di rappresentare l’archetipo dello Scrittore con la S maiuscola, così come nell’epoca precedente era capitato a Ernest Hemingway (1899-1961). Hemingway è stato lo Scrittore della guerra, del fallimento, del silenzio stoico, dell’internazionalismo, della «grazia sotto pressione», dell’indipendenza; Wallace è stato quello dell’entropia, del dolore mentale, della logorrea, del n’importequisme, della paralisi, della dipendenza. Hemingway è stato lo Scrittore della storia, simbolo di un intero secolo che Eric Hobsbawm (1917-2012) ha felicemente definito «breve»; Wallace lo è stato della sociologia, simbolo del sistema di relazioni che il secolo breve ha partorito e che Zygmunt Bauman (1925) ha felicemente definito «liquido».
Uno potevi incontrarlo all’Harry’s Bar di Parigi, o a una corrida a Pamplona, o al Floridita dell’Avana; l’altro nel parcheggio di un centro commerciale di Bloomington, o a tenere una lezione universitaria nella cittadina dall’eloquente nome di Normal, o, come si apprende alla fine del libro di Lipsky, e dunque alla fine del film si vede — ed ecco uno dei momenti che lo rendono più commovente del libro —, a ballare come uno scimpanzé nei locali di una chiesa battista afroamericana. Entrambi hanno vissuto il proprio destino fino all’estremo sacrificio, e quello di Wallace risulta perfino più tragico, proprio per l’assenza, dietro di lui, della turgida tragedia collettiva che faceva da sfondo a ogni pagina scritta da Hemingway. Alle spalle di Wallace solo la moscia, costosa, irriducibile banalità dell’autolesionismo occidentale, con le sue domande piccole piccole, capaci però di produrre un urto emotivo misteriosamente enorme: perché non teniamo in ordine i nostri cassetti; perché abbiamo così poca cura di ombrelli e accendini; perché ci interessano tanto le cose che non ci interessano. Come conseguenza di questo — e non per l’imperdonabile semplificazione che lo ha bollato come «postmoderno» —, tutto, per lui, era fonte d’ispirazione, dalla saliva dei cani all’algoritmo che regola la sincronizzazione dei semafori. È stato capace di innalzare un solenne monumento alla noia, Wallace — il romanzo postumo The Pale King (2011) —, di trasformare in eroi gli esattori delle tasse.
Del resto, Everything about Everything è il titolo del saggio che il critico Tom Bissel (1974) gli ha dedicato sul «New York Times» del primo febbraio scorso in occasione del ventennale di Infinite Jest — ed è proprio il titolo giusto per parlare di Wallace, intrappolato nella perfetta equivalenza tra ogni cosa che accompagna il suo viaggio nell’infelicità. Il mostro che ci divora non è più, come nel secolo scorso, l’hobbesiana catastrofe dell’Homo homini lupus dentro la quale agiscono gli eroi hemingwayani, ma l’intrattenimento senza fine con cui ingolfiamo il nostro tempo al solo scopo di rimuoverla, quella catastrofe, perfino dallo sfondo. Di tutto questo The End of the Tour è il resoconto visivo: una specie di risonanza magnetica della malattia che alimentava il genio di David Foster Wallace e della quale i suoi libri sono i sintomi, in cui David Lipsky (cioè ognuno di noi) svolge la funzione di mezzo di contrasto. Oppure, per tornare al mio sogno, e alla ragione per cui vi si è così intimamente associato, è la cronaca della cena di gala in cui si celebrano tutti gli scrittori migliori di lui, andata desolatamente deserta.
L’inizio del sogno
Di recente ho fatto un sogno: vengo invitato a una cena di gala in cui si celebrano i 3.500 scrittori migliori di me
La fine del sogno Che cosa succederebbe alla cena di gala in cui si celebrano gli scrittori migliori di D.F.W.? Andrebbe deserta